Super User

Ciao, sono NIcolino Cese e mi occupo della manutenzione di questo sito.

57 anni fa nel mese di ottobre presi l'aereo della K.L.M. da Roma per un viaggio che doveva condurmi all'estrema punta dell'Africa, e precisamente nella città dell'oro "Johannesburg". Avevo 21 anni e per la prima volta provai l'emozione di un volo che doveva condurmi da mio marito che lavorava al Carlton Hotel di quella città.La cosa inusuale per quei tempi era sposarsi per procura , cosa che feci senza esitazione ,presa dall'entusiasmo di raggiungere al piu' presto l'uomo che amavo; l'alternativa era un viaggio via mare che avrebbe impiegato 21 giorni;troppi. Cosa importante ,con me e con le stesse esigenze , viaggiava la mia amica Marcella anche lei per raggiungere suo marito Ugo. Il viaggio con il quadrimotore ad elica doveva impiegarci 12 ore; un imprevvisto guasto tecnico al velivolo, ci costrinse ad un atterraggio di emergenza a Brazzaville nel Congo Brazzaville a quei tempi era poco piu' di un grosso villaggio;ci ospitarono per la cena e il pernottamento in un albergo poco distante dall'aereoporto ,nel bel mezzo della jungla, un albergo ad un solo piano , dove si percepiva la presenza di animali selvatici,dal barrito di elefanti,ai guaiti lamentosi di altri animali. Inutile dire che eravamo spaventate trovandoci per la prima volta sole in una situazione imprevista e così distante dall'Italia e dalla nostra mèta. Impossibile comunicare per telefono con i nostri mariti per il ritardo dell'apparecchio, e non sapendo quando saremmo potute arrivare a JHB . La compagnia aerea fu molto efficiente in questo caso ,oltre la sistemazione alberghiera ,col pullman ci condussero nella giungla a vedere un ponte africano sospeso su una voragine dove scorreva un fiume e si potevano scorgere gli ippopotami al pascolo. Io.coraggiosamente mi rifiutai di attraversare questo traballante ponte e rimasi sulla sponda di questo dirupo, la mia amica Marcella , invano mi incoraggiò ad attraversarlo. A cena, ci servirono un buon pasto , che io e Marcella non assaporammo come meritava ; eravamo preoccupate per la sistemazione della camera da letto che ci avevano assegnato , situata al pianoterra. A fine cena ,con il mio stentato inglese ,chiesi alla signora che aveva pranzato al tavolo accanto al nostro,"could you please ,come to sleep with us tonight?" Naturalmente ,il mio inglese non mi consentiva di spiegare che la nostra richiesta era dovuta al timore ,di dover affrontare la notte in quella stanza al pianoterra dove gli animali della giungla erano poco distanti da noi .La risposta di questa signora ,molto probabilmente sudafricana,fu un netto diniego. Un'altra signora ,svedese, che aveva ascoltato la nostra richiesta ,si offrì di farci compagnia,avendo intuito i nostri timori ,considerando la nostra giovane età e intuendo i nostri timori. Il giorno successivo,prima di imbarcarci ,ringraziammo la gentile signora svedese con una stretta di mano e un sorriso dal quale traspariva tutta la nostra felicità;dopo quattro ore di volo,l'aereo inizio' la discesa sul vecchio aeroporto di Johannesburg , Palmifontain.Le colline di sabbia aurifera,risplendevano al sole;era il benvenuto che la città ci inviava,e,Marcella Campedelli e Italia Fornari,incosapevolmente risposero con un sorriso giovanile pieno di fiducia verso il nuovo paese che ci accoglieva. Questo racconto ,è come se fosse stato scritto a quattro mani; le emozioni,i timori,la gioia che abbiamo condiviso le abbiamo rivissute innumerevoli volte,in oltre mezzo secolo di affettuosa amicizia. Paolo,Claudio,Fabio e Daniela,sono stati i frutti di quel matrimonio celebrato per procura e concretizzatosi in quattro bravi "uagliune". E' tutto per questa volta; un saluto a tutti i miei conoscenti da Italia Fornari Questo semplice racconto è stato possibile scriverlo grazie ad Ugo di Cicco, Dante Fantini, Marcella Campedelli ed Italia Fornari!.

Italia Fornari 

il 03/02/2008

Tanti, ma tanti anni, sono trascorsi da quando questa storia è accaduta; io stesso, ne sono stato testimone e anche parte in causa.
A quei tempi, non era di moda la paghetta settimanale;i ragazzi ricevevano qualche lira per le feste natalizie e per quelle padronali;le tasche dei pantaloni erano quasi sempre prive di quel tintinnìo argentino che rallegrava il cuore e rifrancava lo spirito.
Il ragazzo protagonista, e, il testimone, avevano la stessa età, fisicamente si somigliavano.....
Mancavano pochi giorni alla grande festa della Madonna in Basilica;il gelataio ambulante vantava il suo prodotto gridando e spingendo il bianco triciclo che custodiva il freddo dolce, al gusto di vaniglia o cioccolato;
I coni di cialda, da 10 e 20 centesimi, erano in mostra in una teca di vetro;un silente invito ad assaporare quella delizia.
Al corso, di Villa, accanto al Dopolavoro, la baracchetta del tiro a segno era stata eretta,pronta ad accogliere i primi clienti; anche i banchi che esponevano noccioline tostate,lupini salati e fette di cocomero rosse come il fuoco,erano lì,pronte a soddisfare i clienti,dietro pagamento del dovuto prezzo.
Il ragazzo era senza un soldo, guardando quelle leccornie,la parte biricchina, decise di tornare a casa e frugare nelle tasche dei suoi genitori,nella speranza di trovarvi qualche spicciolo e poter soddisfare alcuni dei suoi numerosi desideri. Avrebbe potuto chiedere un anticipo ai suoi genitori sul probabile regalo per la festa imminente; ma quale giustificazione li avrebbe convinti?Nessuna! Rovistò tutte le tasche dei vestiti materni e paterni,nel grande armadio in camera da letto,senza trovare nemmeno i dieci centesimi,necessari per comprare un cono gelato. Stava per uscire da casa, quando fece l’ultimo tentativo;frugare a tentoni con la mano,i ripiani alti dello stipo della cucina.I polpastrelli del ragazzo tastavano dove lo sguardo non poteva,alzando tazze e altri oggetti che potevano celare qualche soldo; improvvisamente, le dita sfiorarono delle cose liscie e mobili,e,nello stesso tempo, prima di vedere,il suo cuore inizio a battere freneticamente. Forse i suoi desideri,quella voglia di impadronirsi di moneta,poteva essere finalmente soddisfatta; la sua coscienza (ciò che ho chiamato "il testimone" ) che era rimasta silenziosa fino a quel momento,pian piano prendeva posto nella sua mente," ;stai commettendo una cattiva azione,stai rubando ai tuoi stessi genitori." Prevalse la fisicità di quella mano,essa divenne adunca e non seppe trattenersi dal prendere le due monete del valore di due lire ciascuna;inutilmente, la voce della sua coscienza continuava a farsi sentire sempre più flebilmente,fino a chetarsi del tutto. In quel periodo,la casa paterna,oltre i miei genitori era abitata dalla mia piccola sorellina di quattro anni ed io, di sei. Quando i miei genitori,rientrarono a casa,dopo aver chiuso bottega,mia madre disse;"Balisà ,(Belisario) ho venduto due pagnotte di pane,i soldi sono nello stipo sul piano alto." A quelle parole,non so che espressione assunse il mio viso,certamente una improvvisa confusione si impossessò della mia mente ,forse un rossore sulle guance.... Volevo tornare indietro nel tempo e non essermi appropriato di quei soldi;avrei dovuto ascoltare la mia coscienza;i soldi mi bruciavano nelle tasche dei pantaloni;avevo separato i soldi in due tasche per evitare un possibile tintinnìo.... La voce di mio padre,si fece strada nella mia confusione mentale e giunse alle mie orecchie come cinque di fucile;"Laurè,qui non c’è niente"! Il viso di mia madre e lo sguardo indagatore si concentrò sul mio volto,solo per un istante;fu sufficiente, per farmi pronunciare a mia discolpa la seguente frase;"giuro che non sono stato io." "Giurare è una cosa seria,non si giura,così,tanto per parlare.Vedo che hai finito di cenare,vai a dormire." Mi affrettai ad alzarmi e senza alcuna protesta mi diressi verso la mia camera,sollevato per essermela cavata così a buon mercato.Perchè mio padre non era intervenuto con la sua autorità in tutta questa vicenda? Questa domanda si affacciò alla mia mente,senza che io trovassi una risposta logica. Mi sedetti sulla sponda del letto,mi tolsi le scarpe e misi in ciascuna di esse una moneta che avevo in tasca. Adesso sono sicuro,pensai,domani sarà un gran giorno....gelati,noccioline,lupini... e ancora tanti gelati. Appena mi misi a letto,sentii i passi di mia madre che salivano le scale... Con sollievo pensai alle tasche vuote.... La prima cosa che fece mia madre,fu di rovesciare le scarpe.... Quel tintinnìo delle monete che cadevano sul pavimento,perforarono le mie orecchie come un trapano a percussione.... "Domani sera,noi andiamo a sentire la banda,ci sediamo da Ciccillucc e gustremo un grosso gelato,-ed aggiunse-e tu resterai qui a dormire!" Con questa frase mia madre chiuse il discorso ed io accettai la punizione come cosa giusta. La sera successiva,(la festa della Madonna) finita la cena, mi alzai da tavola e mi diressi verso la mia camera,sperando in un ripensamento dei miei genitori.....che non ci fù. Questo era lo stile di vita di una volta. 

Dante Fantini  

 Roma 22 Febbraio 2008

La chiave non gira nella toppa della vecchia porta della soffitta; da anni non viene aperta.
Prendo dell’olio e intingo l’estremità della chiave in un barattolo,la inzuppo come facevo nella tazza da bambino col pane nel latte tiepido.
Infilo di nuovo la chiave e sento che la serratura inizia a girare,un’altro giro e la porta con un cigolio degno di un film giallo si apre completamente.
Dal basso soffitto vecchie ragnatele pendono appesantite da anni di polvere.
Il pavimento in mattoni è ricoperto da un sostanzioso strato di polvere.
Giù in fondo,poggiato per terra,un grosso fagotto rettangolare avvolto in un telo di plastica;non so cosa nasconda...
Mi accosto,con circospezione,temo che qualche topo vi sia nascosto dietro.
Con cautela apro l’involucro, una nuvola di polvere si solleva, il raggio di luce che entra dalla porta e ne evidenzia un movimento verso l’alto;polvere di stelle della mia gioventù sono imprigionate in questo angusto spazio.... La vecchia radio Magnadyne a cinque valvole,era lì,con quattro manopole e l’occhio magico;ultima innovazione tecnologica, sul vetro, le stazioni trasmittenti stampate in rosso e verde, un mistero nella mia mente di fanciullo.
Mio padre l’aveva comprata nel 1940, per ascoltare il giornale radio delle ore tredici e ripetuto alle venti,ma anche per udire Radio Londra dove Mario Appelius,confutava le notizie di regime.
I messaggi cifrati per i partigiani. 

Dante Fantini  

il 03/09/2008

Giovanni, Giovanni! Non ne posso più! Si deve pur vedere cosa ha da farsi! E' da stamattina che giro per casa come una matta! - - Sii buona Concetta, cerca di capire. Non è poi così difficile, sai? Sei tu che vuoi fartene un dramma per sbarazzartene. - continuò Giovanni - Pensaci un po',non è un soprammobile, sai? Che cosa devo fare? Dimmelo!
Ricorda che alla fine si diventa tutti vecchi. e allora?
- Da qualche tempo, oramai, la storia si trascina; spesso sono dovuti intervenire i vicini per sedare le liti tra i due. Giovanni, buon'uomo, tutto casa e lavoro; tornando a casa, dopo il duro lavoro nei campi, deve sempre vedersela con la moglie Concetta, alla quale per la sua provenienza da famiglia agiata, abituata nella casa paterna alla servitù e beni d'ogni genere, veniva difficile ora avere a che fare con il vecchio Pietro che, per la sua veneranda età e gli acciacchi ereditati dalla dura vita campestre, era costretto a stare quasi sempre seduto e quindi a dover chiedere, ogni qualvolta ne avesse bisogno, aiuto alla nuora.
Una situazione che, a Concetta, era divenuta pesante, tant'è che spesso rimproverava il marito per non averle dato ascolto quando gli suggeriva di portare suo padre all'"Ospizio"(1) -
Questa, dove abitiamo, è la casa che s'è costruita mio padre con grandi sacrifici! Continuava a ripetere il marito.
- Egli ha qui dentro tutti i suoi ricordi! Lo capisci o no? Come faccio a toglierlo da qui? Come posso portarlo in un posto dove sicuramente soffrirebbe di più nel vedersi abbandonato, dopo ciò che ha fatto per i figli? Sette figli, e tutti emigrati per l'Italia in cerca di lavoro; qualcuno s'era già impiantato con la propria famiglia in una di quelle città, e Gianni, terzogenito, avendo trovato lavoro a Belmonte Mezzagno, paese natìo della famiglia, era rimasto ad abitare nella casa paterna, dove già da anni, morta la moglie, il papà viveva da solo.
La storia continuava a portarsi avanti per lungo tempo; erano già venuti al mondo Pietro e Vincenzino.
Pietro, non appena il nonno apriva bocca, subito gli era accanto.
- Cosa vuoi, nonno? Come stai? - Ho solo dato un colpo di tosse, caro il mio Pietro; su, giacché sei qui siediti, voglio raccontarti una storia.
Devi sapere che tantissimi anni fa, quando la fame e la miseria abitavano quasi tutte le case del nostro piccolo paese.
- Ancora con le favole! E i compiti? - interveniva Concetta inviperita
- Su, vieni a studiare se non vuoi iventar somaro! Quasi che ella non digeriva nemmeno i racconti del vecchio al piccolo Pietro.
- Ma, mamma! - - Niente mamma! - Continuava, borbottando sottovoce frasi verso il vecchio che, a causa della sopraggiunta cecità, non riusciva a scorgere la nuora e capire quant'ella mugugnasse. Il tempo passava, i piccoli cominciavano a farsi adulti; e per il vecchio Pietro gli anni diventavano sempre più pesanti.
I diverbi tra marito e moglie, anziché finire, crescevano sempre più, tanto che il marito per evitare che i figli continuassero a sentire, si convinse a portare il padre in quella casa per anziani: l'"Ospizio". E così, di buon mattino, mentre i figli e la moglie dormivano, si mise in spalle il povero padre e iniziò la strada per Palermo.
Non esistevano mezzi di trasporto in quei tempi. Lungo la strada. o meglio il viottolo che sale per la scorciatoia che da Belmonte porta alla città, (vi era e c'è ancora) uno spiazzo, un grandissimo spiazzo con una enorme quercia dove ancora oggi nidifica l'usignolo, e al centro una piccola sorgente "a Giarritedda".
Giovanni, stanco e sudato, si fermò per riposare e bere un po' d'acqua, adagiò il padre su una grossa pietra accanto alla sorgente ed emise un rantoloso sospiro: "Ah!" Il vecchio Pietro d'un colpo capì quanto stava avvenendo, e disse al figlio:
- Eh, figlio mio, anch'io ebbi a tirare un sospiro quando adagiai mio padre proprio in questo posto, dove tu ora hai adagiato me, mentre lo portavo all'"Ospizio".
- Giovanni rimase impietrito a guardare suo padre, e capì quanto egli disse e il significato di quelle parole; si rimise il padre sulle spalle e, anziché Palermo, fece la via del ritorno.
Pensava e ripensava, lungo la strada, a quelle parole dette da Pietro: "anch'io sedetti mio padre e tirai un rantoloso sospiro, in questo posto, dove tu ora hai adagiato me."
Quelle parole pesavano più di quanto egli portasse sulle spalle.
E mio figlio? Pensò.
Mio figlio, quindi. avrebbe dovuto un giorno non tanto lontano.
Per questa strada.
Era orribile quanto pensava; ma era pur vero che, per accontentare le isteriche voglie di sua moglie. li avrebbe educati. "Certo!" "La moglie!" continuò a pensare.
-Aspetta che torno a casa e sentirai cosa ho da dirti!
- Parli con me, Giovanni? Fece Pietro; mentre il sole cominciava a sciogliere la rugiada mattutina e l'usignolo a riprendere il suo soave verso. (1) (allora, casa di cura per anziani)
Se avete un giornale o una rivista e... se volete,
Vi autorizzo a pubblicarlo; mi auguro che me ne invierete una copia!!! Conoscerei così anche parte dei Vostri posti.  

Rocco Chinnici

Via Adone Zoli 19
90031 Belmonte Mezzagno (PA)

Dopo le note curve del bivio Agnone-Capracotta si apriva l'ampia visione della piana di Agnone, distesa lungo il dorso della montagna come la sella sulla spina dorsale di un somaro: intorno, le creste dei monti più alte, il gradino di Prato Gentile e il folto vello boscoso del cerreto, al di là del quale c'era Roio. Alfio era disturbato nel godimento della vista di quel paesaggio familiare dal continuo parlare di sua moglie, ma comunque il suo animo s'apriva, come sempre, nel respirare quell'aria, l'aria del suo paese, della sua infanzia, del suo passato. Ad Agnone si fermarono sulla piazza Italia, come erano soliti, per comperare qualcosa: un po' di frutta, pomodori, qualche scamorza e mozzarella fresca, una focaccia di pane calda di forno. Ripartiti, la strada s'inerpicava e ridiscendeva in mezzo ad un vasto altopiano senza alberi, costellato qua e là di casali fra il fieno e le rocce. Quante volte aveva fatto quel percorso nella piccola corriera rossa di Cerella, che si prendeva ad Agnone dopo una sosta di circa mezz'ora, scesi dalla più grande corriera azzurra che in circa cinque ore aveva coperto i duecento chilometri o poco più che dividono Roma dalla cittadina molisana! Ad un certo punto la piccola corriera era solita fermarsi, in piena campagna, e l'autista scendeva a prelevare un cestino di ricotta messo sul bordo della strada, in cambio del quale lasciava un contenitore vuoto: tutto intorno, il deserto. Ogni tanto, a una curva, saliva una donna avvolta nello scialle triangolare con una lunga frangia: emanava odore di stalla, di pecora, di formaggio, era bella, molto spesso, con occhi azzurri e capelli chiari, giovane, ma sempre con quell'odore addosso e lineamenti duri, marcati. Oppure era un contadino a salire, con la barba non rasata, la giacchetta aperta su una camicia a quadroni, stile cow-boy, il bordo giallastro della canottiera che si vedeva sotto i primi bottoni slacciati, le mani rugose e callose che penzolavano fuori dalla manica troppo corta. Ogni tanto qualcuno scendeva. La corriera c'era ancora, ma lui era tanto che non la prendeva più, oramai. Si stancava troppo, ora, non ce l'avrebbe fatta a sopportare senza conseguenze un viaggio così pesante e scomodo. Quand'era bambino, ricordava, i vecchi li facevano anche a piedi quei venti chilometri, altrimenti il mezzo adibito era la mula, o al massimo il cavallo. L'aveva fatta anche lui a cavallo quella strada, parecchie volte, dietro suo padre. Ricordava un giorno d'inverno in cui aveva dovuto farla da solo per andare a chiamare il dottore ad Agnone. Era già buio, in inverno le giornate sono corte, specialmente fra i monti. Arrivato all'altezza del cimitero, circondato dal terrore derivante dai racconti terrificanti delle nonne e delle vecchie zie, cominciò a vedere delle luci che si muovevano: i "fuochi fatui" che ballavano la loro macabra danza! Il sangue gli si gelò nelle vene, i peli si rizzarono, un sudore freddo cominciò a colargli da tutti i pori: nascose la testa fra la criniera del cavallo, per non vedere, e via, al galoppo. Ormai il terrore s'era impossessato di lui: dietro ogni curva si aspettava di vedere uscire da un agguato quei briganti che avevano assalito un suo ricco antenato che tornava con un carico di mercanzie e una carovana di muli dall'Adriatico, dal porto di Pescara. La carovana era stata sbaragliata, rapinata, il bisnonno bastonato fino ad avere tutte le ossa rotte ed era morto pochi mesi dopo, fra dolori inenarrabili, circondato comunque dalle cure pietose della moglie e dei figli. La famiglia era stata così ridotta sul lastrico, ed aveva dovuto ricominciare tutto da capo. Se la storia fosse del tutto vero, se fosse un'esagerazione, o addirittura tutta un'invenzione, non l'avrebbe mai saputo: ma allora per lui era vera, era la realtà, e una realtà senza tempo, che poteva essere accaduta cent'anni prima o ieri. Rina parlava quasi senza interruzione e lui, ogni tanto, automaticamente, doveva rispondere. Ma l'anima era fuori dei finestrini della macchina, coi sassi, in mezzo alle macchie di verde, fra gli alberi, fra i radi cavalli che pascolavano. Superato Rosello, con le sue case fra le alte rocce - quasi tutti questi paesi sono costruiti in mezzo a speroni di roccia, pésco nel dialetto locale - ecco che lo sguardo si distende su Roio, addormentato sul costolone della montagna in tutta la sua lunghezza, con le maioliche del campanile luccicanti al sole e l'obbrobrio dell'albergo ormai in rovina, una specie di grattacielo una volta azzurro che supera in altezza persino la torre campanaria. Ecco, sulla sinistra, il cimitero, un piccolo agglomerato di costruzioni bianche, linde e ordinate, dove più di una volta qualche camioncino di venditore ambulante si era incamminato, lasciando la strada principale per la stradina sterrata sulla sinistra, diritta, credendo che quello fosse il paese. Dopo le ultime curve tutte a salire, finalmente il dirizzone del piccolo corso, e la piazza, dove si ferma la macchina. I soliti vecchi sulle panchine bianche di pietra si voltarono a guardare. Nessuno di famiglia, anche se sapevano della sua venuta, anche se abitavano proprio lì, sulla destra, nel primo palazzetto sulla piazza. Eppure era nato lì, in quel paese, quelli erano suo fratello e le sue sorelle, lì aveva ruzzolato e scivolato tante volte sul ghiaccio, aveva fatto a pallate di neve, aveva combinato marachelle, era sceso col padre, sulla mula, fin giù alle vigne, la mattina presto, quando ancora il sole non sfiancava. Ricordava una volta che il padre gli aveva comandato di tornare a casa da solo e lui si era perduto fra i viottoli bianchi che salivano in alto fino al paese. D'altronde lui non c'era cresciuto, lì, a tre anni era stato mandato in Toscana, dai ricchi zii, in Maremma, e lì aveva trascorso il periodo più felice dell'infanzia. Rivedeva ancora sé stesso bambino, di circa sei anni o poco più, aggrappato disperatamente alla gonna della zia, piangente, esserne strappato per tornare in mezzo al freddo e al buio di quei monti, in mezzo a bambini che parlavano un altro dialetto da quello che ormai era il suo. Dovette dire addio per sempre alle spiagge di Cecina, ai cavalli a branco nella pineta, al mare che brillava lontano fra i rami degli alberi. Eppure s'era abituato presto al suo paese: s'era ritrovato fra i sassi dell'Abruzzo, durante le mietiture d'estate, quando i bambini restavano i padroni del paese e giocavano per le strade e le piazze semideserte; durante le tristi giornate invernali, imbiancate solo di neve, che s'andava con le assi delle botti per sci a buttarsi dai pendii, con le gambe nude che uscivano dai pantaloncini corti. Ora i fratelli lo consideravano un estraneo. Aveva tradito. Non aveva più il diritto di tornare, quella non era più casa sua. Aveva studiato in città, ma non aveva messo a frutto i sacrifici del padre per sostenere la famiglia, aiutarla. Se n'era invece fatta un'altra, di famiglia, in città, si era preso una donna della città che guardava con disprezzo al paese, aveva fatto una figlia di città. Era un perfuga. Cosa voleva ora, perché veniva a spiare la loro vita difficile e stentata di montanari, a sbattergli in faccia la sua diversità, il suo incivilimento esteriore, e quella moglie così lontana, così diversa, così sprezzante? Nessuno gli venne incontro, alla macchina. E quando lui bussò ed entrò in casa, solo la sorella gli fece un sorriso inebetito dalla malattia. Lesse l'indifferenza, l'astio quasi nel saluto degli altri. Offrì un pacchetto di dolci. "Non ci servono, grazie. Da te non ci serve niente". Sentì stringerglisi il cuore, raggelarsi. Sentì per la prima volta, dopo settanta anni, che una parte di sé era morta. Si sentì diviso, dimezzato. Una parte percossa, uccisa, morta, sepolta. L'altra parte sopravviveva, ma era sofferente. Era la parte estranea a quei monti, al bosco alto sul colle in faccia al paese, alle scale ripide verso la chiesa, alla porta sgangherata di quella che era stata la sua scuola elementare, ai sassi della strada fatti tante volte di corsa sbucciandosi le gambe. Non diceva niente, a quella parte sopravvissuta, l'aria profumata di prato e di bosco che spirava in quello splendido pomeriggio d'estate, né l'odore della legna da poco tagliata e accatastata per l'inverno. Aveva cominciato a morire, e quella parte di sé che se n'era andata era rimasta sepolta lassù, fra i monti del paese natìo.

La signora Maria aprì a libretto le persiane: filtrò un raggio pieno di pulviscolo dorato che andò a illuminare uno spicchio di legno scuro del grande letto ottocento italiano e poi, dopo un angolo acuto, disegnò una striscia di luce bicolore sul pavimento a mattonelle ottagonali rosso scuro e ocra. Il vecchio dal letto diede un'occhiata di sbieco. La signora si accomiatò in breve, alquanto brusca: "Ora devo andare, ma fra poco arriva suo nipote: non si preoccupi, non starà solo per molto". "Meglio solo, molto meglio!" bofonchiò fra le lenzuola. Sentì ancora un certo tramestìo di là, nello stanzino, poi la porta che sbatteva. La solitudine. Quella solitudine a cui era avvezzo, che si era orgogliosamente conquistata cacciando di casa, tanti anni addietro, la moglie. "Quella è la porta!" le aveva detto, senza un'altra parola, senza uno sguardo, senza un tentennamento o un tremolìo nella voce. Lo raccontava con una punta di orgoglio. Perché poi lo avesse fatto, di quale colpa si fosse macchiata quella donna, nessuno se ne ricordava. Chissà se, dopo tanto tempo, lo sapeva più anche lui, Achille. Aveva continuato a vivere la propria vita da distinto signore d'altri tempi, con la tuba, in pieni anni cinquanta, l'abito scuro con le bretelle, la marsina, i sigari toscani sempre nella tasca. Era nato negli ultimi anni del secolo scorso. A vent'anni aveva fatto la guerra in Libia, poi la Grande Guerra; per la seconda era ormai troppo vecchio. C'era stato però un momento nella sua vita, dacché era rimasto solo, che aveva vissuto in modo diverso, c'era stato un intervallo. Aveva accolto da lui il nipote, rimasto senza casa poco dopo la fine della guerra, il figlio del fratello che viveva sui monti dell'abbruzzo natìo. Amava suo fratello, anche se non lo dimostrava con esteriori affettuosità, come era nella sua natura scabra, dura, e quello, fra i suoi figli, era il preferito. Dunque lo aveva accettato in casa, in cambio di una piccola somma mensile, lui, la moglie e la figlioletta di quattro anni. Lui che non aveva bambini, che non li aveva mai amati, attraverso quella consuetudine giornaliera si trovò ad affezionarsi quasi morbosamente alla piccola. La mattina i genitori uscivano per il lavoro, e loro due restavano soli. Se la portava con sé, piano piano, fino all'edificio della Stazione Termini, giù in fondo alla via Giolitti, dove abitavano. La teneva per la manina, lui alto, grosso, e lei così piccolina, dipendente in tutto da lui. Le parlava, le raccontava tante cose, lui che non aveva mai parlato per lunghissime giornate, per tanti anni con nessuno. Le parlava delle mule in guerra, i migliori amici dei soldati, dei vecchi films di Charlie Chaplin: passando davanti all'Ambra Jovinelli ricordava la sua giovinezza, evocava le luci, le ballerine, i numeri di varietà, e la piccola stava incantata ad ascoltare e nella sua mente la fanciulla povera raccolta da Charlot per la strada si confondeva con le ballerine svolazzanti sotto i riflettori. La bimba aveva imparato presto ad approfittare del buon vecchio. L'assillava perché era stanca, e lui a tirare con pazienza per arrivare fino al tabaccaio della stazione, dove avrebbe trovato i suoi sigari toscani. Le prometteva per il pomeriggio la pastarella alla torrefazione Aureli, in via Quattro Fontane, dove lui andava a sorbirsi il caffè. Qualche volta la portava dallo zio Vincenzo, che era il maggiordomo di Palazzo Zuccari, sopra la scalinata dii Trinità dei Monti. Sembrava un vecchio lord inglese, lo zio Vincenzo, in marsina e ghette, raffinatissimo. Danielina si annoiava parecchio in quelle visite, e le faceva scontare al povero zio Achille con capricci e regalini. Quand'era la mattina dell'Epifania, sul tavolo della cucina del piano rialzato dell’appartamento di via Giolitti dove abitavano, apparecchiato per la visita notturna della buona vecchina, insieme ai mille giocattoli per la bimba, c'era sempre anche la scatola dorata dei suoi Toscani, o il lungo involto che nascondeva - si fa per dire - un bastone nuovo col manico di osso o la testa d'animale d'argento. Quando Diana aveva cominciato a frequentare la scuola elementare, il vecchio burbero aveva perduto molto. Allora cercava di trovare impegni gradevoli per il pomeriggio, in cui coinvolgere la sua Cosetta, come gli piaceva chiamarla. Le aveva fatto vedere in un grosso volume dei Miserabili un'illustrazione dove veramente la piccola Cosetta e il grande Valjean con tuba e bastone, mano nella mano sulla spalletta della Senna, sembravano loro due. A primavera poi c'era il rito del Concorso Ippico Internazionale. Allora, elegantissimi, la piccola con l'abitino inamidato e il cappellino di paglia o di cotone a falde larghe, col fiocco di lato, passavano prima da Fassi a piazza Fiume, per sorbire una Caterinetta nel bel giardino interno, seduti ai tavoli di ferro battuuto, poi si recavano a piazza di Siena, in mezzo al verde smeraldino macchiato dal bianco e rosso degli ostacoli, con la pioggia che immancabilmente faceva la sua fugace apparizione. Lo zio Achille, quando l'altoparlante annunciava i cavalieri, spiegava a Diana chi erano, le indicava i cavalli, bai, storni, afgani, inglesi: spiegava le differenze, insegnava alla nipotina le caratteristiche dei diversi purosangue e delle varie scuole. Poi iniziava il percorso, nel silenzio più assoluto, scandito dal galoppo dei cavalli, il salto, a volte l'asta di legno che cadeva, o il rumore della zampa del cavallo nell'acqua. Il Concorso Ippico Internazionale sarebbe sempre rimasto, per Diana, legato allo zio, alla sua vita con lui, e non ci era più tornata, dopo che era andata via da quella casa, nonostante allora fosse per lei un appuntamento immancabile e bellissimo. Ora Diana era cresciuta. Era andata via ormai da quasi vent'anni, le appassite che il vecchio si portava quando tornava dall'abbruzzo potevano rimanere tranquillamente appese nello stanzino integre, senza che nessun "topino" andasse a mordere di nascosto le "orecchiette". Come fingeva di adirarsi, allora! e come era triste e deluso di trovarle integre, ora! Si era fidanzata, e lui accoglieva sempre in casa con affetto e simpatia il suo compagno, nelle loro visite non frequentissime ma con cadenze certe. Si era poi sposata e lui era andato al loro matrimonio, con fatica, ormai stanco. Era stanco di una vita tanto lunga, tanto vuota. Gliel'aveva detto lo scorso Natale, quando erano andati per fargli gli auguri, che era stanco. Era stato poco bene, e loro due gli avevano chiesto premurosamente come andava. "Come volete che vada, oramai non ho più nulla da fare in questo mondo, aspetto solo di andarmene". Quando poi, dopo l'Epifania, Diana gli aveva detto di aspettare un figlio, lui era rimasto colpito. Non sapeva se essere contento o dispiaciuto. "Come, proprio adesso? Adesso che finalmente me ne potevo andare in pace, senza rimpianti, adesso ho un nuovo motivo di rimpianto, quello di non vedere questa creatura. Mi dai un motivo inaspettato per cui vorrei vivere ancora, quel tanto che basta a vederla". Lei aveva celiato: fra poco l'avrebbe vista, non doveva preoccuparsi, per l'estate il bimbo sarebbe nato e lui l'avrebbe visto. Ora tirava disperatamente il fiato: non ce l'avrebbe fatta, era agli sgoccioli. Poteva essere? proprio ora? Entrò Alfio, silenziosamente. "Come va zio, dormi?" "No, riposavo". Il pomeriggio era caldo, quasi estivo. Era aprile, la settimana della Passione, mancava poco alla Pasqua. Diana doveva venire a trovarlo, col pancione. Proprio quella mattina - la prima delle vacanze - aveva detto a Francesco che voleva andare, era preoccupata. "Andremo fra tre giorni, non morirà proprio adesso, non ti preoccupare", le aveva detto Francesco. "Preparo un po' di caffè, così ne prendi un goccio anche tu". Alfio aveva proprio bisogno di un caffè. Era uscito presto di casa, aveva preso due autobus per andare fin là. D'altronde non poteva lasciarlo solo. Dopo i quattro anni vissuti nella sua casa, se n'era andato alquanto bruscamente: era stato proprio lo zio a metterlo alla porta, dopo aver preso in disparte Diana per dichiararle tutto il suo affetto intatto. C'erano dei motivi, cercò di spiegare alla bambina frastornata, la vita aveva le sue leggi inesorabili. Ma lei doveva tenere bene a mente che era il suo unico affetto, il suo unico pensiero, il suo unico punto di riferimento. Le aveva anche detto, in quell’occasione, che pensava di lasciare l’appartamento, quando fosse venuto a mancare, ai nipoti di Roio, perché c’era “quella disgraziata, Marsilia”, aveva detto proprio così, e lo faceva per lei. Era d’accordo, non le dispiaceva? Diana aveva poco più di otto anni, ma era abbastanza matura. Gli disse che no, non le dispiaceva, e difatti mai più nel corso degli anni ripensò a quella cosa con rancore: l’aveva trrovata subito normale, e così poi sempre l’aveva considerata. Ora, nel momento estremo del bisogno, egli aveva potuto conoscere suo nipote, e ancor più sua moglie, la mamma di Diana, sotto una luce nuova, inaspettata: disponibili, pronti al sacrificio, nonostante i precedenti. Gliel'aveva detto, lui che era sempre così orso, con affetto, quasi con commozione. "No, grazie, magari lo prenderei fra un po'. Ora mi andrebbe un po' di ricotta. Potresti scendere a vedere se ne trovi, per favore?". Alfio andò. Scese i pochi gradini del portoncino, si trovò sulla strada assolata: un trenino azzurro, di quelli che vanno a Cinecittà, sferragliò rumorosamente sui binari. Alfio pensò che erano vent'anni che quei binari dovevano essere rimossi, ed erano ancora lì, e ad ogni passaggio di un treno tremavano i vetri, sembrava ci fosse una scossa di terremoto. Pensò che era stata una fortuna essere dovuti andar via da quella casa, era stato lo stimolo per riuscire ad acquistare un appartamento di proprietà, con sacrificio ma con soddisfazione, giù verso l'EUR. Fece i pochi passi fino al negozietto di alimentari, scese tre o quattro gradini e si trovò dentro. Fu avvolto dal fresco piacevole del seminterrato. Si fece incartare un etto di ricotta, pensando che era un buon segno che lo zio avesse fame. Risalì sulla strada, infilò il portone. Aperta la porta di casa disse allo zio che aveva trovato la ricotta. "Ecco, che faccio, te la metto in un piattino?". Si affacciò sulla porta della stanza per sentire la risposta. Il vecchio era appoggiato sui guanciali, il viso verso la finestra semiaperta, gli occhi sbarrati a vedere tutti gli anni che sarebbero venuti, tutti quelli che erano passati. 

Diana Cavorso 

19/10/2008

“puzza fa du quintale”

 Le macerie delle case distrutte dalla follia umana offrivano ottimi nascondigli a noi bambini; conoscevamo alla perfezione ogni pietra, avvallamento, muretto, trabocchetto. Qualcuno di noi è stato fin troppo curioso da raccogliere le perfide penne- bomba, munizioni inesplose, spolette abbandonate... cedendo dolorosamente, a questi oggetti d’odio, il proprio tributo permanente; ma questa è un’altra storia. Sapevamo che la luna piena del mese di marzo preannunciava l’arrivo de lu sanapurcielle: cerusico, stregone, filosofo; alto, lugubre con addosso, indelebile, un odore di muschio, tabacco, vino, sudore. Tutto ciò che possedeva lo portava con sé in un grande zaino militare dentro cui, sicuramente, conservava tracce di ricordi, di amori,patimenti. Arrivava e scompariva, sfuggendo sempre al nostro costante presidio del territorio; non riuscivamo a capire da dove entrasse ed uscisse dal paese. Noi sapevamo, oltre ogni certezza, che era amico dei “mazz’marielli”, spiritelli nevrotici ed invidiosi (a tutti invisibili ma non a noi bambini), abitanti delle grotte che circondavano e circondano il paese. Era con il loro aiuto che appariva e scompariva e che poteva esercitare con fierezza la sua arte: castrare. Seguivamo, anzi inseguivamo il banditore (ma anche messo comunale, guardiano del cimitero, spazzino, pensatore e, all’occorrenza, ‘mmasciatore) nei suoi giri di avviso. Ricordo che aveva tante coppole di diversi colori; le cambiava in funzione del ruolo che ricopriva e noi sapevamo, in qualsiasi momento, quale delle tante incombenze stava assolvendo. In mano il piccolo corno d’ottone riprodotto, in latta, anche sulla visiera della coppola d’ordinanza; l’offesa più grande era toccargliela!!! Quando sudava se la toglieva; asciugava, con un fazzoletto a quadri rossi e gialli, prima il bordo interno della coppola e quindi la fronte; si rimirava in uno specchio immaginario e se la infilava, con cura e lentamente, sul cranio pelato, come se avesse ancora un grande cespuglio di capelli. Prima il davanti, poi incalcava il bordo posteriore e quindi rialzava la visiera con decisione, continuando a carezzare le tempie affinché nemmeno un capello restasse fuori posto: era convinto di averne, di capelli. Girava per le viuzze del paese e le misere contrade, annunciando con un monotòno: peperepeeee è arrivate... pausa... lu sanapurcielle...pausa... sta alla funtana...pausa, pausa lunga... zinarrivà massera...pausa...’nche lu scure, peperepeeee... < Mo ‘i zi ni esce l’anime!!! > biascicavano i vecchi seduti avanti gli usci delle case, sbuffando fumo e saliva dalle lunghe e casalinghe pipe di canna e braciere in terracotta rossa. Le donne nella cui casa regnava la fortuna di avere un maiale, rabbrividivano al pensiero dell’operazione, necessaria a farlo ingrassare maggiormente ed ottenere una carne più tenera e saporita; il maiale doveva essere “sanato”. Lu sanapurcielle aveva pochi ma funzionali attrezzi per castrare i maschi di maiale con facilità; con qualche difficoltà le ovaie (interne) delle maiale. Affilava i suoi attrezzi, sconosciuti a tutti e che nessuno osava guardare; li sfregava con maestrìa e abilità, l’un contro l’altro, producendo un suono, scffffsss scffffsss, che preannunciava dolore e sangue; li maneggiava come un giocoliere, ne controllava il filo in controluce, li adattava alle sue enormi mani e velocemente tagliava l’aria come un esperto spadaccino; di nuovo scffffsss scffffsss finché la sua arte ne valutava la perfezione. Con precisione e “professionalità”, nell’assoluto silenzio delle astanti (anche l’acqua della fontana faceva meno rumore nella caduta dentro gli abbeveratoi), iniziava il suo lavoro mentre le proprietarie (solo le donne assistevano a queste operazioni) giravano la testa per non vedere. Le femmine di maiale subivano l’amputazione più dolorosa; il bisturi entrava nella carne alla ricerca delle ovaie, velocemente e con decisione asportate; le donne presenti inalavano aria, senza espellerla, sino alla fine dell’operazione; il sangue e le urla della maiala coprivano le loro mute preghiere: “sentivano” il coltello entrare nelle loro carni. Eventuali ritardi nell’individuazione ed asportazione delle ovaie, dopo aver infilato l’attrezzo nella carne, avrebbero causato la morte della povera bestia, le cui urla strazianti lasciavano del tutto indifferente lu sanapurcielle. Infine spalmava d’olio d’oliva la ferita per disinfettarla o forse celebrava un rito esoterico che nessuno capiva; prendeva il maiale per la coda, l’alzava e finalmente parlava, con voce cavernosa: puzza fa du’ quintale!!! (ti auguro di pesare due quintali). Noi bambini, timorosi di questo forestiero così rispettato da tutti e amico delle forze delle caverne, ci nascondevamo dietro le macerie, nostro territorio di giochi e assistevamo, bocca, occhi ed orecchie spalancati, a questo orrendo spettacolo, che cercavamo di dimenticare girovagando per le campagne alla ricerca di melucce, perucci e fichere pizzent’ rimasti sugli alberi, intirizziti come noi dal freddo e dalle urla dei porci che, per ore, ci rintronavano dentro. Questo è uno dei tanti mestieri del passato, che nessuno pratica più; il maiale oggi deve essere magro, senza un filo di grasso, ben nutrito, curato; praticamente un porco allegro. 

Mimmo Galluppi 

 28/01/2009

Ricordi di una Vita

Racconti di Cese Amedeo raccolti dal figlio Nicolino

Nelle foto sopra: Pasqualino di Carlo, Cese Amedeo e Coletta Flaminio.

Avevo solo due anni quando persi la mamma, e fino all’età di dodici restai a Schiavi D’Abruzzo (Contrada Valli). Al mattino andavo a scuola ma un po’ per la voglia che mancava un po’ per la cattiva alimentazione il profitto era alquanto scarso, il pomeriggio invece bisognava andare in campagna a lavorare, si trattava di sarchiare le patate, mietere il grano accudire gli animali. A dodici anni mi trasferii a Roio chiamato da mio fratello Amerigo che mi aveva preceduto già da qualche anno; presi servizio presso la famiglia di Di Carlo Pasqualino e zà Rosetta.
L’abitazione di Pasqualino era sotto quella di Nicola Colafrusciut, fui alloggiato nella casa di fronte (quella attuale di Ornella Ara Ara) lo stipendio mensile era di Lire 100 oltre il vitto e l’alloggio, somma che alla fine del mese Pasqualino mi versava su un libretto postale. Durante il giorno bisognava accudire le pecore portandole al pascolo e provvedere ad altre mansioni tipo il taglio e la raccolta del foraggio. Il pranzo in genere era preparato da zà Rosetta e consisteva di solito in pane con companatico di formaggio o salsicce, a volte una frittata. La sera invece la cena era più sostanziosa, tagliariell e fasciuol, pasta e fasciuol, pasta e patate, di carne neanche l’ombra. Durante l’inverno dopo la cena spesso per arrotondare lo stipendio s’impagliavano le sedie, mentre nel periodo estivo bisognava condurre i cavalli al pascolo, durante la notte ci si addormentava per terra sulle pelli ( di pecora o mucca ) fino al mattino. Nel mese di maggio le pecore venivano condotte a “lu Pulaj” dove veniva fatto loro il bagno (le pecore venivano condotte dentro un “chiatron “ d’acqua dove per essere sicuri che la lana fosse pulita venivano fatte immergere per tre volte, bastava buttarne una che le altre la seguivano. Tre giorni dopo quando la lana era asciutta, venivano tosate e la lana ricavata veniva messa nei sacchi per poi essere venduta a Castiglione o ad Agnone quando c’era la fiera. Le pecore iniziavano a partorire durante il mese di aprile e gli agnelli maschi venivano venduti verso fine maggio le femmine invece, che dovevano essere allevate, venivano prima separate dalle mamme e poi condotte al pascolo. Le mamme potevano a questo punto essere munte per farne il formaggio (da giugno a settembre). Il 10 di novembre, i montoni venivano portati tra le pecore dopo, le pecore vecchie venivano vendute e sostituite con le giovani. Durante l’autunno, dal mese di ottobre, le pecore gravide restavano a Roio dentro le stalle dove avrebbero poi partorito mentre quelle sterili ed i montoni venivano trasferite alle vigne, durante il giorno venivano pascolate mentre la notte venivano rimesse dentro le casette (piccole abitazioni in pietra che in quel periodo erano state edificate in quasi tutti i poderi ), qui’ anche noi dormivamo su giacigli fatti di bastoni e canne. Durante la notte si andava nelle vigne dei possidenti di Villa S. Maria per prendere qualche grappolo d’uva per alleviare la fame, raramente arrivava da Roio qualche pagnotta di pane. Al mattino presto quando era ancora buio ci si trasferiva dalle vigne alla favugliett (località sulla montagna, sopra la grotta dei briganti) ed alla sera si faceva il percorso inverso. Quando la guerra era quasi al termine, i tedeschi distrussero quasi tutto, a Roio, mettevano bombe in case alterne cosi’ da distruggerle tutte, ricordo il giorno della distruzione, mi trovavo alla grotta dei briganti, era una giornata bellissima quando insieme a Flaminio assistemmo alla distruzione di quasi tutte le case di Roio. Dopo non potendo più restare a Roio per la situazione che si era venuta a creare io ed Amerigo ci trasferimmo alle Puglie ( a San Severo) dove restammo per sei mesi e questo per due anni consecutivi 1944 – 45, qui affittavamo una cascina per pascolare le pecore. Mentre andavamo incontrammo Liberato (il padre di Peppe ) che, non sapendo cosa fare si aggregò con noi, si occupò arrivati a destinazione di accudire i due buoi di Pasqualino, ricordo che durante il giorno tale era il caldo che Liberato si toglieva le scarpe e le infilava sulle corna dei buoi, la sera per raccimolare qualcosa da mangiare, Americo e Liberato andavano con accetta e sacco nei campi di finocchi , dopo i finocchi si passava alle fave, Liberato strisciava pancia in giu sui campi per non farsi vedere, questo per un mese; l’anno dopo ritornai con Amerigo e Domenico Cupplitt, la situazione era notevolvente migliorata, trovavamo facilmente cibo per mangiare. Dopo i primi anni in cui pascolavamo le pecore di proprietà di Pasqualino, io e Amerigo incominciammo a crearci un nostro gregge, successivamente Pasqualino uscì da questa attività mentre noi continuammo in proprio Nel 1944 Filippo (il figlio di Pasqualino) propose a me e Amerigo di fare una società per la conduzione di 2000 capi di pecore, Filippo avrebbe comprato le pecore e noi avremmo messo il lavoro, il ricavato sarebbe stato diviso in parti uguali, purtroppo non se ne fece niente perché non fu possibile trovare il terreno per i capannoni. Nel 1947 –48 con un po ri risparmi accumulati ed un contributo dello stato riuscii ad acquistare un locale distrutto durante la guerra di proprietà di Adele Vigilante, e cominciai a ricostruirlo, successivamente comprai un altro locale alla fundicella anch’esso distrutto durante la guerra e ne feci una seconda abitazione.

Cese Amedeo 

Racconti

Il padre di Cocciarusc ( Miccaiell )

Parlando in piazza con alcuni amici faceva capire che alle vigne aveva dei meloni quasi giunti a maturazione cosi’ gradi ma cosi’ grandi che potevano pesare 10 Kg. Amedeo, Giovanni (lu puchrar), Amerigo ed Elvio che ascoltavano, decisero che durante la notte sarebbero andati alla vigna di Miccaiel per prenderli, e cosi’ fecero. Era notte quando presero i meloni per portarli a Roio, ma quando le prime luci dell’alba illuminarono i cocomeri , videro che si trattava solo di cocuzze, si accorsero così di essere stati presi in giro.

Mariannina Lemme

Alle vigne aveva un campo di fave tenere. il solito gruppo d’amici decise quindi di andarci, Elvio disse agli altri di portare una sacchetta, giunti sul campo tutti incominciarono a cogliere, il sacco venne riempito ed Elvio che fin li aveva solo mangiato fu costretto dagli altri a caricarselo sulle spalle per portarlo a Roio, dopo qualche metro però aveva voglia ancora di mangiare, ed anche gli altri a questo punto incominciarono ad aiutarlo… morale a Roio il sacco arrivò vuoto.

La C’ rasc (il ciliegio) di Tarquinio

Per la via di Monteferrante Tarquinio aveva un ciliegio, i cui frutti da lontano sembravano cosi grandi ed invitanti da dover essere presi, venne organizzata quindi per la sera una mangiata. Erano presenti Amedeo, Tonino (Colafrisciut), Antonio di Clementina, Elvio Tubbiell e Amerigo. Amedeo in segreto disse a Tonino, mentre noi andiamo al ciliegio tu vai a casa mia e prendi un lenzuolo, tra dieci minuti vieni sotto il ciliegio e comincia a girarci intorno. Erano tutti sulla pianta a mangiar ciliegie quando Tonino arrivò e incominciò a girare intorno alla pianta. Gli altri che non sapevano niente presero un tale spavento da far tremare la pianta per la paura.

Zà Rosetta

Nei periodi estivi, si viveva in campagna, allogiavamo alla casetta di Midio di Agnone e, una volta al giorno Flaminio si occupava di portarci gli alimenti. Un giorno io e Pasqualino eravamo alla valmara a pascolare le pecore quando arrivò Flaminio, nella sua bisaccia aveva una pizza Ndrmapp, Flaminio vista la pizza che non gli piaceva ed era oltretutto dura disse che non l’avrebbe mangiata, noi provammo a mangiarne un pezzo ma Flaminio non ne volle sapere e decise così di riportarla indietro e la ripose in una delle due sacche della bisaccia. Il giorno dopo Zà Rosetta vista che una sacca della bisaccia era piena, riempi l’altra parte con un’altra pizza N’drmapp e la consegnò a Flaminio che ritornò alla Valmara senza accorgersi di nulla, quando vuotò però la bisaccia e si accorse del contenuto disse che lui non le avrebbe mai mangiate. Decise così di andare a rubare le patate a lu munticiell nei campi di quelli di Rosello, ma mentre tentava di rubare le patate, arrivò il proprietario e non riuscì quindi a prendere niente, a questo punto non avendo niente da mangiare si convinse a mangiare la pizza che venne però immersa prima nel latte. Il giorno dopo si era a mietere il grano, a mezzogiorno zà Rosetta arrivò con una spasa di pasta e ceci, eravamo io, Americo Flaminio e Pasqualino ci sedemmo per terra dove era stato steso lu musal con la pentola ed incominciammo a mangiare, un cucchiaio dietro l’altro senza neanche respirare, Pasqualino si girò per un’attimo a guardare il bosco e quando si rigirò per mangiare si accorse che la spasetta era vuota ed asclamò “ o p la madosch v’ lavet finit” e Flaminio di rimando “ Cumpà ma noi credevamo che non avessi più fame “ e così restò quasi a digiuno. Una sera dopo che le pecore erano state rimesse in un recinto, sotto Roio, alla plan d’ munn, costituito da una rete metallica, ritornai a Roio per mangiare, nel mentre i cani incominciarono ad abbaiare, ne dedussi che i lupi si fossero inseriti nel recinto, andai giù per vedere cosa fosse successo e vidi che il lupo era entrato nel recinto ed aveva ammazzato una pecora, a quel punto ritornato a casa presi il fucile ed attesi che il lupo si facesse ancora vivo, dopo un po’ infatti appari’ un’ombra, sparai senza sapere se e cosa avessi colpito, intorno infatti vi erano anche delle mule al pascolo. Il mattino successivo, ritornato a Roio, Pasqualino stava osservando la pancia della mula e diceva, “mannaggia a Cristoforo Colombo, cosa gli è successo a questa mula”, solo allora mi resi conto cosa avevo colpito durante la notte con la mia fucilata.

Il 17 gennaio, festa di S. Antonio, in paese si svolgeva la grande fiera in suo onore. Numerose bancarelle si snodavano lungo le stradine in discesa, proponendo utensili necessari ai lavori dei campi o per accudire alle bestie. Un venditore di lamette Gilette si aggirava tra la folla proponendo la sua mercanzia: matite emostatiche, piccoli saponi, forbicine, forcine per capelli, clips, bottoni, specchietti tondi, callifughi, pettinini e pettinesse d’osso (utilizzate queste ultime dalle nonne per catturare pidocchi e loro uova sulle teste di noi bambini); attirava l’attenzione con un pappagallo coloratissimo, appollaiato su un’asticella sovrastante una scatola contenente centinaia di foglietti impilati come buste di té: il volatile ne estraeva uno a caso, a pagamento e dietro ordine del padrone, su cui era scritta “la ventura”, una specie di oroscopo sempre benevole e speranzoso in un futuro migliore; tutti sapevano che non serviva a niente, ma aiutava... Non mancavano venditori di stoffe e abbigliamenti pesanti, scarpe con le “cindrelle” e “chiochie” (numero unico ed uguali fra loro, quindi niente destra e sinistra); la parte inferiore sagomata a forma di scarpa con pezzi di pneumatici residuati della guerra; lacci e stringhe le fermavano al cavallo dei piedi ed alle caviglie. Ciò che si acquistava lo si pagava non sempre con la moneta, mezzo semi sconosciuto ai più, ovvero in disuso per mancanza di frequentazione con essa; il baratto, antico e sempre utile mezzo di scambio, era il denominatore e riferimento finanziario del mercato, da tutti accettato, anzi gradito e mai obsoleto. Bottiglie di olio, vino, salsicce e salami, salmi di grano, di granoturco, uova, (oddio quante uova ho rubato a mia nonna per barattare due nazionali ed una esportazione!!!), calze e maglie di lana, lana cardata e lavata, piccoli animali da cortile, peperoni incertati o tritati, frutta e ortaggi sottaceto e quant’altro il buon Dio, nella sua immensa bontà, rendeva disponibile alle necessità primarie della povera gente. Sto raccontando di un tempo molto lontano, forse cinquant’anni fa o forse più; la miseria accompagnava le persone dalla nascita alla morte, come la pelle, come un fraterno ed indissolubile compagno del lungo o breve viaggio della vita. Nessuno si vergognava di essere povero o di iscriversi all’ECA (ente comunale assistenza) che distribuiva, vera Provvidenza, i misteriosi barattoli del piano Marshall: cioccolata, carne, formaggi, farina lattea, olio di semi, farina e tanto altro ben di Dio che la pietà umana d’oltreoceano trasformava in oggetti, alimenti, bevande; i nostri ex nemici, ora amici, ci avevano perdonato e ci aiutavano. Tutto veniva scambiato, barattato; tutto, ma proprio tutto, aveva una quotazione, un prezzo, un valore, anche oggetti di nessun valore: a qualcosa o a qualcuno servivano. Un anno mio padre, per arginare gli effetti deleteri e distruttivi, sui miei pantaloni, dei giochi violenti tra rovi, pietre, ferri arrugginiti e quant’altro creasse pericolo, in fiera comprò per me un pantalone di “pelle del diavolo”; stoffa misteriosa, esoterica, sconosciuta, che prometteva con il suo nome, perfetto ossimoro, miracoli per la resistenza agli strappi. Indossandoli provavo un senso di protezione; ovviamente inventai e frequentai giochi sempre più pericolosi, tanto avevo i pantaloni di “pelle del diavolo”. Un vecchio del vicinato, Zì Cusumille, mentre masticava tabacco, sputava un liquame nero e beveva il suo solito mezzo litro di vino cotto, commentò: sole quesse i mancava! Mo è pruprie diavule!!! Condivideva il cotto, i ceci “mbrenati” e le fave lesse nonché le riflessioni socio-enogastronomiche un altro vetusto, Zì Tummase, fumatore di sigarette fatte a mano e respirate tenendo il braciere dello spinello in bocca; chiuse definitivamente la già per loro lunga discussione con: < e quesse ‘n’è niente! Addà vidè appress!!! > E giù un altro bicchiere di scuro nettare. Salute! In un’altra zona, non molto distante, si svolgeva la fiera vera e propria; animali di tutte le taglie e razze, età e forza, venivano proposti alla vista ed all’esperto controllo dei potenziali acquirenti. Era tutto un mugghire, rovistare di lettiera, belare, starnazzare, ragliare, grugnire, scalpitare, scalciare, ruminare, calpestare e chi più ne ha più ne metta. Noi bambini ci accovacciavamo avanti al recinto dei tacchini, lanciando fischi secchi e rapidi fhiiii a cui, immancabilmente, loro rispondevano con isterici e monotoni glu glu glu glu; il loro padrone, dopo un pò, si scocciava e ci cacciava senza tanti riguardi. Un allevatore/venditore di tacchini, infilato a forza dentro un pantalone modello “ascellare”, grosso come un otre e con una cinta a “brache di mulo” che gli sosteneva da sotto l’immenso stomaco, era il nostro bersaglio preferito; godevamo a farlo innervosire tormentando le sue bestie in attesa della sua immancabile e tanto attesa maledizione, musica divina per le nostre orecchie: puzzata fa lu butt de lu sang!!! Testa e collo erano un tutt’uno: non riusciva a girare l’una senza coinvolgere totalmente l’altro. Paonazzo, iniziava ad avanzare sbuffando e barcollando verso di noi; era talmente grasso che camminava lateralmente, ruotando l’immenso bacino per dare una direzione al suo incedere mentre le braccette corte corte penzolavano ai lati del corpo; nonostante tutto riusciva a prendere per il collo un tacchino sempre a primo colpo, con una agilità incredibile: non sbagliava mai!!! Scappavamo non prima di aver lanciato l’ultimo fischio: fhiiii glu glu glu glu. Il comitato feste di S. Donato, con i miseri residui, ben rendicontati, delle feste patronali dell’anno precedente, procedeva all’acquisto di uno o due maialini (il numero dipendeva dai residui...). Il prete, il sindaco, il medico, il segretario comunale ed altri notabili del paese assistevano alla impegnativa transazione versando, all’occorrenza, qualche altro spicciolo, valutando e scegliendo, con serietà, coscienza e conoscenza l’eletto; si ipotizzava il peso massimo che questo o quello avrebbe raggiunto, il sapore delle sue carni, la quantità di grasso che avrebbe prodotto. Ad accordo concluso tra le parti acquirenti si trattava con il venditore. Questi frattanto si aggirava, apparentemente indifferente ai loro discorsi, pacioso e serafico, tra i suoi maialini come un seminatore sul suo campo, sicuro del raccolto, delle sue creature e della sua ricchezza. Attacchi, proposte, lusinghe, diffide e false rinunce caratterizzavano la lunga trattativa: metà degli acquirenti assolveva alle funzioni di frusta; l’altra metà addolciva la mediazione e pacificava: la carota. Il venditore partecipava sereno a questa recita con il ruolo di capo comico, ben sapendo che sua sarebbe stata l’ultima parola, l'ultima battuta, quella che strappa gli applausi e che chiude il sipario. Concluse le schermaglie tattiche e strategiche di alta economia-veterinaria tutti soddisfatti, dopo una stretta di mano che concludeva l’affare, si imponeva al maialino scelto, intorno al collo, una striscia di stoffa rossa (che il tuttofare del paese l’avrebbe sostituito all’occorenza) con appeso uno squillante ed elegante campanellino. Finalmente, dopo le necessarie giaculatorie del prete, l’animaletto veniva liberato dal recinto; immediatamente acquisiva tutti i diritti e privilegi del suo rango e nessun dovere verso chicchessia, era a tutti gli effetti: lu purcielle di santantonie. Il vizioso soppesava e valutava, nel giro di qualche giorno, il suo potere e la forza del suo protettore; godeva del titolo e ne approfittava spuderatamente. Lo scampanellio dietro l’uscio di casa ed il grugnire nervoso e incontinente erano i segnali inequivocabili che bisognava provvedere, immediatamente, a soddisfare il suo poderoso appetito, sempre più pressante con l’aumentare del suo peso: mangiare, mangiare, mangiare. Per quanto nelle case questo verbo si pronunciava sempre a bassa voce e con la contrizione di chi viene sopreso a bestemmiare in chiesa, si arrangiava comunque un pastone di granoturco, melucce e ghiande raccolte nei boschi, prontamente servito all’ingordo insaziabile. Appena finito il pasto, il bellimbusto, con il muso sporco capovolgeva nervosamente il “trocolo”; la famiglia considerava la sua presenza ed il gradimento del pasto, una benedizione ed una protezione. Si racconta ancora tra i contadini burloni che uno di questi maiali, grasso e pasciuto, si accaniva verbalmente contro un asino, ricordandogli le continue violenze del padrone, i carichi eccessivi, l’assenza di riposo, le bastonate del prossimo, lo scarso e scadente mangiare. La povera bestia da soma, rassegnata, accettava queste umiliazioni, desiderosa di mostrare umiltà e benevolenza verso un animale che lui disprezzava ma era misteriosamente rispettato dal suo padrone. Un giorno, non potendone più, gli disse: è vero, hai ragione; anno dopo anno devo subire tutte queste angherie. Però adesso che ti guardo bene, tu non sei il maiale dell’anno scorso... Lu purcielle di santantonio mangiava e dormiva dove voleva e nessuno poteva rimproverarlo, scacciarlo, toccarlo. Avete presente le mucche in India? Noi bambini davamo il tormento a qualsiasi essere vivente, animale o persona, nonché a cose: mucchi di sabbia dei muratori, sansa ed asini dei frantoi, granoturco ammonticchiato nelle aie in attesa di essere “spanocchiato”, farina nel mulino e quant’altro poteva attrarre la nostra barbara e distruttiva attenzione. Certo, con il lardoso ci si incontrava lungo i viottoli e le stradine del paese; apparentemente indifferenti ma guardinghi; lui grugniva assorto, con un lento borbottio, come se volesse ricordarci il suo rango ed il suo protettore; noi sentivamo il bastone di quest’ultimo sferzare sulle nostre teste a conferma della sua presenza: ce l’avrebbe fatta pagare cara se avessimo infastidito il divino che continuava le sue passeggiate filosofiche mangerecce con il codino a tirabaci; vezzoso, vizioso e nevrotico. Il porcello di sant’Antonio era un tabù, intoccabile, nemmeno con pietre, bastoni, ferri, rami; niente, non ci si doveva nemmeno provare. Dio che rabbia!!! Ipotizzavamo agguati, trappole, rincorse; niente, non potevamo fare niente, proprio noi che osavamo tutto! Attendevamo malignamente, per dare sollievo alle sofferte astinenze, seduti sulla “sponda del fiume”, ovvero il giorno seguente la luna piena di dicembre. Il porcellone, pesante e dondolante per il mangiare accumulato durante tutto l’anno (nessun animale o essere vivente avrebbe potuto ingurgitare tanto quanto lui) veniva finalmente catturato; inizialmente restava interdetto, non sapeva cosa fare: mah, mah, mah come si permettevano!!! A nulla servivano le sue urla, la sua vicinanza al santo e lo scampanellio con cui chiedeva rispetto, rispetto, rispetto...ed alimenti. Lo si stendeva, come ogni altro maiale e senza alcun riguardo al suo rango di prediletto, su una rastrelliera di legno, piedi ben legati e torciona di canne secche già accesa. Un esperto macellaio gli affondava il sottile e lungo stiletto nella gola, allla ricerca del cuore. Gli spasmi della morte e le urla cessavano non subito, mentre il sangue sgorgava dalla giugulare, caldo e fumoso a causa del freddo, dentro un “comodo” di rame capiente, pronto per essere lavorato in sanguinaccio e sanguitiello. Il primo, dopo la cottura, si faceva raffreddare e quindi solidificare in panetti. Quando serviva si abbrustoliva su piccoli treppiedi, tagliato a fette spalmate di olio e peperoncino piccante. Il sanguitiello veniva lavorato con cioccolato, pezzi di noci, mandorle e zucchero; conservato in barattoli come marmellata, andava a riempire, insieme a quella di uva, calcionetti, taralli ed altri succulenti dolci tradizionali. Ritorniamo al nostro nobile decaduto, anzi scannato. Appeso per le zampe posteriori, dopo aver versato l’ultima goccia di sangue, veniva issato in modo che la testa penzolasse a non più di trenta centimetri da terra. Con la torcia di canne qualcuno bruciava, ben bene, tutti i peli che ricoprivano il monarca portando alla luce una bella pelle rosea, promessa di futuri e succulenti bocconi: il re è nudo!!! L’esperto macellaio lo squartava dalla coda, arrogantemente ancora arricciata, alla gola: estraeva le viscere e le altre interiori; frattaglie tutte da utilizzare. Niente si buttava del maiale e de lu purcielle di santantonie; anche le ossa: con la soda caustica ed altri intrugli si produceva il poliedrico sapone di casa. Quell’ammasso di arroganza, ingordigia, carne, grasso, potere, viscere, sangue ed ossa veniva diligentemente sezionato in pezzi ben individuati e venduti all’asta che si svolgeva immediatamente, in presenza dei notabili, dei cittadini e campagnoli e, naturalmente, di noi bambini che avevamo scrutato gli occhi della povera bestia mentre le infilavano il coltello in gola. Spiavamo, stupiti, la vita che finiva; il dolore riflesso nei suoi occhi. Gli spasmi gli contraevano muscoli, carne, denti: la morte violenta è uno spettacolo immondo!!! Le urla ci penetravano come spilli roventi, fino all’anima; respiravamo la puzza delle interiori ed il tanfo dei peli bruciati; ne restavamo tramortiti, silenziati, intimoriti; pronti però ad assistere all’esecuzione del prossimo maiale. La testa era la parte più contesa e veniva proposta in ultimo; assegnata, finiva l'asta e la riunione paesana; si attendeva il prossimo San’Antonio. I proventi dell’asta venivano equamente distribuiti tra i poveri del paese; ad essa ogni persona sentiva il dovere di partecipare ed i pezzi acquistati valevano molto meno del prezzo pagato, ma non erano parti scelte di un maiale qualsiasi, erano de lu purcielle di santantonio.
07/09/2009

Mimmo Galluppi

(1950, ANNO PIU' ANNO MENO)!!!

Bei tempi del calcio...

Dedicato a tutti quelli che hanno vissuto il calcio vero....che oggi non c'è più!!!!
Noi che...finivamo in fretta i compiti per andare a giocare a pallone sotto casa;
noi che...costretti alla regola di "portieri volanti" o " chi si trova para",
noi che..."portieri volanti" e..."segnare da oltre centrocampo vale?" - Vale...vale tutto!
noi che...quando si facevano le squadre, se venivamo scelti per primi ci sentivamo davvero i più bravi, i più importanti;
noi che...l'ultimo che veniva scelto era sicuramente destinato ad andare in porta;
noi che...avevamo sempre un soprannome passibilmente infamante ma nessuno si offendeva;
noi che...chi arriva prima a dieci ha vinto;
noi che...mentre facevamo finta di non sentire il richiamo della mamma quando incombevano le tenebre,
c'era sempre qualcuno che diceva: "chi segna l'ultimo vince" incurante del punteggio che magari era in quel momento 32 a 1,
noi che...abbiamo vissuto con terrore l'epoca delle "Espadrillas" con le quali ai piedi non si poteva giocare a pallone;
noi che...se avevamo ai piedi le Adidas Tampico ci sentivamo piu' forti di Pelè;
noi che...invece avevamo ai piedi le Tepa Sport,
noi che...il pallone di cuoio sapevano come era fatto perché lo vedevamo in Tv esclusivamente ad esagoni bianchi e neri;
noi che...capivano il senso della seconda maglia quando in Tv bianco e nero mandavano le immagini del derby Milan-Inter
noi che...o il SUPER TELE (in mancanza d'altro) o l'ELITE (lo standard) o il TANGO DIRCEU se andava di lusso o nei giorni di festa
noi che... non potevamo sederci sul pallone altrimenti diventava ovale;
noi che...il proprietario del pallone giocava sempre anche se era una schiappa e non andava nemmeno in porta;
noi che...anche senza la traversa non avevamo bisogno della moviola per capire se era goal. "Goal o rigore" metteva sempre tutti d'accordo;
noi che...al terzo corner è rigore;
noi che..."rigore seguito da goal è goal" ;
noi che..."siete dispari posso giocare?" - "Eh non lo so, il pallone non è mio (nel caso in cui il pretendente fosse uno scarso)!";
noi che..."mi fate entrare?" - "Si basta che ne trovi un altro sennò siamo dispari";
noi che...riconoscevamo i calciatori anche se sulla maglietta non c'era scritto il nome;
noi che..."Una vita da mediano" (Oriali-Ligabue) era già una filosofia di vita;
noi che...il n° 1 era il portiere, il n°2 ed il n°3 i terzini destro e sinistro, il n° 4 il mediano di spinta, il n° 5 lo stopper, il n° 6 il libero,
il n° 7 l' ala destra, il n° 8 una mezzala , il n° 9 il centravanti, il n° 11 l'altra punta possibilmente mancina, il n° 10 la mezzala con la fascia di capitano perchè era inevitabilmente il piu' bravo;
noi che...perché un giocatore entrasse in nazionale doveva fare una trafila di 2/3 anni ad alto livello;
noi che...gli stranieri al massimo 2 per squadra e li conoscevamo tutti;
noi che...dormivamo con le figurine Panini sotto il cuscino ;
noi che...quando aprivamo le bustine intonse pregavamo per non trovare triplone o quadriplone PILONI ; il 2° mitico portiere della Juve che non aveva mai giocato una partita per colpa di ZOFF;
noi che...avevamo in simpatia Van de Korput per il nome e Bruscolotti perché sembrava più vecchio di nostro padre noi che...il calcio in Tv lo guardavamo solo la Domenica ed il Mercoledì;
noi che...il sabato mattina eravamo terribilmente stanchi perché la sera prima avevamo visto Cesare Cadeo dopo Premiatissima;
noi che...la Domenica alle 19,30 vedevamo un tempo di una partita di calcio;
noi che...vivevamo in attesa di 90° minuto e ci sentivamo protetti dalle figure paterne di Paolo Valenti, Necco da Napoli, Bubba da Genova, Giannini da Firenze, Vasino da Milano, Castellotti da Torino, Pasini da Bologna,Tonino Carino da Ascoli, Stroppa "riporto" da Bari o Lecce
noi che...la Stock di Trieste è lieta di presentarvi...papapà... papapà Ameri,scusa Ameri....clamoroso al Cibali" (che nella nostra fantasia era piu' famoso di Catania);
noi che..."tutta la squadra dell' Internazionale retrocede a protezione dei 16 m" (sempre Ciotti);
noi che...ci ricordiamo i festeggiamenti del n. 1.000 della Domenica Sportiva;
noi che...alla DS potevamo vedere i servizi della serie A, i goal della serie B, il Gran Premio, Tennis. Basket e la pallavolo senza doverci sorbire ore di chiacchiere per vedere 4 goal;
noi che...Galeazzi l'abbiamo visto magro;
noi che..."il piede proletario di Franco Baresi" (Beppe Viola);
noi che...andavamo all'amica del cuore di quella che ci piaceva e le chiedevamo: "Dici a Maria se si vuole mettere con me?" Il giorno dopo tornava e la risposta era sempre la stessa: "Ha detto che ci deve pensare..."
noi che...Maria ancora ci stà pensando!
noi che...agli appuntamenti c'eravamo sempre tutti, anche senza telefonini;
noi che...oggi viviamo lontani, ma quando usciamo di casa e giriamo l'angolo speriamo sempre di incontrarci con il pallone in una busta di plastica.