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Il 17 gennaio, festa di S. Antonio, in paese si svolgeva la grande fiera in suo onore. Numerose bancarelle si snodavano lungo le stradine in discesa, proponendo utensili necessari ai lavori dei campi o per accudire alle bestie. Un venditore di lamette Gilette si aggirava tra la folla proponendo la sua mercanzia: matite emostatiche, piccoli saponi, forbicine, forcine per capelli, clips, bottoni, specchietti tondi, callifughi, pettinini e pettinesse d’osso (utilizzate queste ultime dalle nonne per catturare pidocchi e loro uova sulle teste di noi bambini); attirava l’attenzione con un pappagallo coloratissimo, appollaiato su un’asticella sovrastante una scatola contenente centinaia di foglietti impilati come buste di té: il volatile ne estraeva uno a caso, a pagamento e dietro ordine del padrone, su cui era scritta “la ventura”, una specie di oroscopo sempre benevole e speranzoso in un futuro migliore; tutti sapevano che non serviva a niente, ma aiutava... Non mancavano venditori di stoffe e abbigliamenti pesanti, scarpe con le “cindrelle” e “chiochie” (numero unico ed uguali fra loro, quindi niente destra e sinistra); la parte inferiore sagomata a forma di scarpa con pezzi di pneumatici residuati della guerra; lacci e stringhe le fermavano al cavallo dei piedi ed alle caviglie. Ciò che si acquistava lo si pagava non sempre con la moneta, mezzo semi sconosciuto ai più, ovvero in disuso per mancanza di frequentazione con essa; il baratto, antico e sempre utile mezzo di scambio, era il denominatore e riferimento finanziario del mercato, da tutti accettato, anzi gradito e mai obsoleto. Bottiglie di olio, vino, salsicce e salami, salmi di grano, di granoturco, uova, (oddio quante uova ho rubato a mia nonna per barattare due nazionali ed una esportazione!!!), calze e maglie di lana, lana cardata e lavata, piccoli animali da cortile, peperoni incertati o tritati, frutta e ortaggi sottaceto e quant’altro il buon Dio, nella sua immensa bontà, rendeva disponibile alle necessità primarie della povera gente. Sto raccontando di un tempo molto lontano, forse cinquant’anni fa o forse più; la miseria accompagnava le persone dalla nascita alla morte, come la pelle, come un fraterno ed indissolubile compagno del lungo o breve viaggio della vita. Nessuno si vergognava di essere povero o di iscriversi all’ECA (ente comunale assistenza) che distribuiva, vera Provvidenza, i misteriosi barattoli del piano Marshall: cioccolata, carne, formaggi, farina lattea, olio di semi, farina e tanto altro ben di Dio che la pietà umana d’oltreoceano trasformava in oggetti, alimenti, bevande; i nostri ex nemici, ora amici, ci avevano perdonato e ci aiutavano. Tutto veniva scambiato, barattato; tutto, ma proprio tutto, aveva una quotazione, un prezzo, un valore, anche oggetti di nessun valore: a qualcosa o a qualcuno servivano. Un anno mio padre, per arginare gli effetti deleteri e distruttivi, sui miei pantaloni, dei giochi violenti tra rovi, pietre, ferri arrugginiti e quant’altro creasse pericolo, in fiera comprò per me un pantalone di “pelle del diavolo”; stoffa misteriosa, esoterica, sconosciuta, che prometteva con il suo nome, perfetto ossimoro, miracoli per la resistenza agli strappi. Indossandoli provavo un senso di protezione; ovviamente inventai e frequentai giochi sempre più pericolosi, tanto avevo i pantaloni di “pelle del diavolo”. Un vecchio del vicinato, Zì Cusumille, mentre masticava tabacco, sputava un liquame nero e beveva il suo solito mezzo litro di vino cotto, commentò: sole quesse i mancava! Mo è pruprie diavule!!! Condivideva il cotto, i ceci “mbrenati” e le fave lesse nonché le riflessioni socio-enogastronomiche un altro vetusto, Zì Tummase, fumatore di sigarette fatte a mano e respirate tenendo il braciere dello spinello in bocca; chiuse definitivamente la già per loro lunga discussione con: < e quesse ‘n’è niente! Addà vidè appress!!! > E giù un altro bicchiere di scuro nettare. Salute! In un’altra zona, non molto distante, si svolgeva la fiera vera e propria; animali di tutte le taglie e razze, età e forza, venivano proposti alla vista ed all’esperto controllo dei potenziali acquirenti. Era tutto un mugghire, rovistare di lettiera, belare, starnazzare, ragliare, grugnire, scalpitare, scalciare, ruminare, calpestare e chi più ne ha più ne metta. Noi bambini ci accovacciavamo avanti al recinto dei tacchini, lanciando fischi secchi e rapidi fhiiii a cui, immancabilmente, loro rispondevano con isterici e monotoni glu glu glu glu; il loro padrone, dopo un pò, si scocciava e ci cacciava senza tanti riguardi. Un allevatore/venditore di tacchini, infilato a forza dentro un pantalone modello “ascellare”, grosso come un otre e con una cinta a “brache di mulo” che gli sosteneva da sotto l’immenso stomaco, era il nostro bersaglio preferito; godevamo a farlo innervosire tormentando le sue bestie in attesa della sua immancabile e tanto attesa maledizione, musica divina per le nostre orecchie: puzzata fa lu butt de lu sang!!! Testa e collo erano un tutt’uno: non riusciva a girare l’una senza coinvolgere totalmente l’altro. Paonazzo, iniziava ad avanzare sbuffando e barcollando verso di noi; era talmente grasso che camminava lateralmente, ruotando l’immenso bacino per dare una direzione al suo incedere mentre le braccette corte corte penzolavano ai lati del corpo; nonostante tutto riusciva a prendere per il collo un tacchino sempre a primo colpo, con una agilità incredibile: non sbagliava mai!!! Scappavamo non prima di aver lanciato l’ultimo fischio: fhiiii glu glu glu glu. Il comitato feste di S. Donato, con i miseri residui, ben rendicontati, delle feste patronali dell’anno precedente, procedeva all’acquisto di uno o due maialini (il numero dipendeva dai residui...). Il prete, il sindaco, il medico, il segretario comunale ed altri notabili del paese assistevano alla impegnativa transazione versando, all’occorrenza, qualche altro spicciolo, valutando e scegliendo, con serietà, coscienza e conoscenza l’eletto; si ipotizzava il peso massimo che questo o quello avrebbe raggiunto, il sapore delle sue carni, la quantità di grasso che avrebbe prodotto. Ad accordo concluso tra le parti acquirenti si trattava con il venditore. Questi frattanto si aggirava, apparentemente indifferente ai loro discorsi, pacioso e serafico, tra i suoi maialini come un seminatore sul suo campo, sicuro del raccolto, delle sue creature e della sua ricchezza. Attacchi, proposte, lusinghe, diffide e false rinunce caratterizzavano la lunga trattativa: metà degli acquirenti assolveva alle funzioni di frusta; l’altra metà addolciva la mediazione e pacificava: la carota. Il venditore partecipava sereno a questa recita con il ruolo di capo comico, ben sapendo che sua sarebbe stata l’ultima parola, l'ultima battuta, quella che strappa gli applausi e che chiude il sipario. Concluse le schermaglie tattiche e strategiche di alta economia-veterinaria tutti soddisfatti, dopo una stretta di mano che concludeva l’affare, si imponeva al maialino scelto, intorno al collo, una striscia di stoffa rossa (che il tuttofare del paese l’avrebbe sostituito all’occorenza) con appeso uno squillante ed elegante campanellino. Finalmente, dopo le necessarie giaculatorie del prete, l’animaletto veniva liberato dal recinto; immediatamente acquisiva tutti i diritti e privilegi del suo rango e nessun dovere verso chicchessia, era a tutti gli effetti: lu purcielle di santantonie. Il vizioso soppesava e valutava, nel giro di qualche giorno, il suo potere e la forza del suo protettore; godeva del titolo e ne approfittava spuderatamente. Lo scampanellio dietro l’uscio di casa ed il grugnire nervoso e incontinente erano i segnali inequivocabili che bisognava provvedere, immediatamente, a soddisfare il suo poderoso appetito, sempre più pressante con l’aumentare del suo peso: mangiare, mangiare, mangiare. Per quanto nelle case questo verbo si pronunciava sempre a bassa voce e con la contrizione di chi viene sopreso a bestemmiare in chiesa, si arrangiava comunque un pastone di granoturco, melucce e ghiande raccolte nei boschi, prontamente servito all’ingordo insaziabile. Appena finito il pasto, il bellimbusto, con il muso sporco capovolgeva nervosamente il “trocolo”; la famiglia considerava la sua presenza ed il gradimento del pasto, una benedizione ed una protezione. Si racconta ancora tra i contadini burloni che uno di questi maiali, grasso e pasciuto, si accaniva verbalmente contro un asino, ricordandogli le continue violenze del padrone, i carichi eccessivi, l’assenza di riposo, le bastonate del prossimo, lo scarso e scadente mangiare. La povera bestia da soma, rassegnata, accettava queste umiliazioni, desiderosa di mostrare umiltà e benevolenza verso un animale che lui disprezzava ma era misteriosamente rispettato dal suo padrone. Un giorno, non potendone più, gli disse: è vero, hai ragione; anno dopo anno devo subire tutte queste angherie. Però adesso che ti guardo bene, tu non sei il maiale dell’anno scorso... Lu purcielle di santantonio mangiava e dormiva dove voleva e nessuno poteva rimproverarlo, scacciarlo, toccarlo. Avete presente le mucche in India? Noi bambini davamo il tormento a qualsiasi essere vivente, animale o persona, nonché a cose: mucchi di sabbia dei muratori, sansa ed asini dei frantoi, granoturco ammonticchiato nelle aie in attesa di essere “spanocchiato”, farina nel mulino e quant’altro poteva attrarre la nostra barbara e distruttiva attenzione. Certo, con il lardoso ci si incontrava lungo i viottoli e le stradine del paese; apparentemente indifferenti ma guardinghi; lui grugniva assorto, con un lento borbottio, come se volesse ricordarci il suo rango ed il suo protettore; noi sentivamo il bastone di quest’ultimo sferzare sulle nostre teste a conferma della sua presenza: ce l’avrebbe fatta pagare cara se avessimo infastidito il divino che continuava le sue passeggiate filosofiche mangerecce con il codino a tirabaci; vezzoso, vizioso e nevrotico. Il porcello di sant’Antonio era un tabù, intoccabile, nemmeno con pietre, bastoni, ferri, rami; niente, non ci si doveva nemmeno provare. Dio che rabbia!!! Ipotizzavamo agguati, trappole, rincorse; niente, non potevamo fare niente, proprio noi che osavamo tutto! Attendevamo malignamente, per dare sollievo alle sofferte astinenze, seduti sulla “sponda del fiume”, ovvero il giorno seguente la luna piena di dicembre. Il porcellone, pesante e dondolante per il mangiare accumulato durante tutto l’anno (nessun animale o essere vivente avrebbe potuto ingurgitare tanto quanto lui) veniva finalmente catturato; inizialmente restava interdetto, non sapeva cosa fare: mah, mah, mah come si permettevano!!! A nulla servivano le sue urla, la sua vicinanza al santo e lo scampanellio con cui chiedeva rispetto, rispetto, rispetto...ed alimenti. Lo si stendeva, come ogni altro maiale e senza alcun riguardo al suo rango di prediletto, su una rastrelliera di legno, piedi ben legati e torciona di canne secche già accesa. Un esperto macellaio gli affondava il sottile e lungo stiletto nella gola, allla ricerca del cuore. Gli spasmi della morte e le urla cessavano non subito, mentre il sangue sgorgava dalla giugulare, caldo e fumoso a causa del freddo, dentro un “comodo” di rame capiente, pronto per essere lavorato in sanguinaccio e sanguitiello. Il primo, dopo la cottura, si faceva raffreddare e quindi solidificare in panetti. Quando serviva si abbrustoliva su piccoli treppiedi, tagliato a fette spalmate di olio e peperoncino piccante. Il sanguitiello veniva lavorato con cioccolato, pezzi di noci, mandorle e zucchero; conservato in barattoli come marmellata, andava a riempire, insieme a quella di uva, calcionetti, taralli ed altri succulenti dolci tradizionali. Ritorniamo al nostro nobile decaduto, anzi scannato. Appeso per le zampe posteriori, dopo aver versato l’ultima goccia di sangue, veniva issato in modo che la testa penzolasse a non più di trenta centimetri da terra. Con la torcia di canne qualcuno bruciava, ben bene, tutti i peli che ricoprivano il monarca portando alla luce una bella pelle rosea, promessa di futuri e succulenti bocconi: il re è nudo!!! L’esperto macellaio lo squartava dalla coda, arrogantemente ancora arricciata, alla gola: estraeva le viscere e le altre interiori; frattaglie tutte da utilizzare. Niente si buttava del maiale e de lu purcielle di santantonie; anche le ossa: con la soda caustica ed altri intrugli si produceva il poliedrico sapone di casa. Quell’ammasso di arroganza, ingordigia, carne, grasso, potere, viscere, sangue ed ossa veniva diligentemente sezionato in pezzi ben individuati e venduti all’asta che si svolgeva immediatamente, in presenza dei notabili, dei cittadini e campagnoli e, naturalmente, di noi bambini che avevamo scrutato gli occhi della povera bestia mentre le infilavano il coltello in gola. Spiavamo, stupiti, la vita che finiva; il dolore riflesso nei suoi occhi. Gli spasmi gli contraevano muscoli, carne, denti: la morte violenta è uno spettacolo immondo!!! Le urla ci penetravano come spilli roventi, fino all’anima; respiravamo la puzza delle interiori ed il tanfo dei peli bruciati; ne restavamo tramortiti, silenziati, intimoriti; pronti però ad assistere all’esecuzione del prossimo maiale. La testa era la parte più contesa e veniva proposta in ultimo; assegnata, finiva l'asta e la riunione paesana; si attendeva il prossimo San’Antonio. I proventi dell’asta venivano equamente distribuiti tra i poveri del paese; ad essa ogni persona sentiva il dovere di partecipare ed i pezzi acquistati valevano molto meno del prezzo pagato, ma non erano parti scelte di un maiale qualsiasi, erano de lu purcielle di santantonio.
07/09/2009

Mimmo Galluppi

Pubblicato in Ricordi