L'ULTIMO GIORNO

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La signora Maria aprì a libretto le persiane: filtrò un raggio pieno di pulviscolo dorato che andò a illuminare uno spicchio di legno scuro del grande letto ottocento italiano e poi, dopo un angolo acuto, disegnò una striscia di luce bicolore sul pavimento a mattonelle ottagonali rosso scuro e ocra. Il vecchio dal letto diede un'occhiata di sbieco. La signora si accomiatò in breve, alquanto brusca: "Ora devo andare, ma fra poco arriva suo nipote: non si preoccupi, non starà solo per molto". "Meglio solo, molto meglio!" bofonchiò fra le lenzuola. Sentì ancora un certo tramestìo di là, nello stanzino, poi la porta che sbatteva. La solitudine. Quella solitudine a cui era avvezzo, che si era orgogliosamente conquistata cacciando di casa, tanti anni addietro, la moglie. "Quella è la porta!" le aveva detto, senza un'altra parola, senza uno sguardo, senza un tentennamento o un tremolìo nella voce. Lo raccontava con una punta di orgoglio. Perché poi lo avesse fatto, di quale colpa si fosse macchiata quella donna, nessuno se ne ricordava. Chissà se, dopo tanto tempo, lo sapeva più anche lui, Achille. Aveva continuato a vivere la propria vita da distinto signore d'altri tempi, con la tuba, in pieni anni cinquanta, l'abito scuro con le bretelle, la marsina, i sigari toscani sempre nella tasca. Era nato negli ultimi anni del secolo scorso. A vent'anni aveva fatto la guerra in Libia, poi la Grande Guerra; per la seconda era ormai troppo vecchio. C'era stato però un momento nella sua vita, dacché era rimasto solo, che aveva vissuto in modo diverso, c'era stato un intervallo. Aveva accolto da lui il nipote, rimasto senza casa poco dopo la fine della guerra, il figlio del fratello che viveva sui monti dell'abbruzzo natìo. Amava suo fratello, anche se non lo dimostrava con esteriori affettuosità, come era nella sua natura scabra, dura, e quello, fra i suoi figli, era il preferito. Dunque lo aveva accettato in casa, in cambio di una piccola somma mensile, lui, la moglie e la figlioletta di quattro anni. Lui che non aveva bambini, che non li aveva mai amati, attraverso quella consuetudine giornaliera si trovò ad affezionarsi quasi morbosamente alla piccola. La mattina i genitori uscivano per il lavoro, e loro due restavano soli. Se la portava con sé, piano piano, fino all'edificio della Stazione Termini, giù in fondo alla via Giolitti, dove abitavano. La teneva per la manina, lui alto, grosso, e lei così piccolina, dipendente in tutto da lui. Le parlava, le raccontava tante cose, lui che non aveva mai parlato per lunghissime giornate, per tanti anni con nessuno. Le parlava delle mule in guerra, i migliori amici dei soldati, dei vecchi films di Charlie Chaplin: passando davanti all'Ambra Jovinelli ricordava la sua giovinezza, evocava le luci, le ballerine, i numeri di varietà, e la piccola stava incantata ad ascoltare e nella sua mente la fanciulla povera raccolta da Charlot per la strada si confondeva con le ballerine svolazzanti sotto i riflettori. La bimba aveva imparato presto ad approfittare del buon vecchio. L'assillava perché era stanca, e lui a tirare con pazienza per arrivare fino al tabaccaio della stazione, dove avrebbe trovato i suoi sigari toscani. Le prometteva per il pomeriggio la pastarella alla torrefazione Aureli, in via Quattro Fontane, dove lui andava a sorbirsi il caffè. Qualche volta la portava dallo zio Vincenzo, che era il maggiordomo di Palazzo Zuccari, sopra la scalinata dii Trinità dei Monti. Sembrava un vecchio lord inglese, lo zio Vincenzo, in marsina e ghette, raffinatissimo. Danielina si annoiava parecchio in quelle visite, e le faceva scontare al povero zio Achille con capricci e regalini. Quand'era la mattina dell'Epifania, sul tavolo della cucina del piano rialzato dell’appartamento di via Giolitti dove abitavano, apparecchiato per la visita notturna della buona vecchina, insieme ai mille giocattoli per la bimba, c'era sempre anche la scatola dorata dei suoi Toscani, o il lungo involto che nascondeva - si fa per dire - un bastone nuovo col manico di osso o la testa d'animale d'argento. Quando Diana aveva cominciato a frequentare la scuola elementare, il vecchio burbero aveva perduto molto. Allora cercava di trovare impegni gradevoli per il pomeriggio, in cui coinvolgere la sua Cosetta, come gli piaceva chiamarla. Le aveva fatto vedere in un grosso volume dei Miserabili un'illustrazione dove veramente la piccola Cosetta e il grande Valjean con tuba e bastone, mano nella mano sulla spalletta della Senna, sembravano loro due. A primavera poi c'era il rito del Concorso Ippico Internazionale. Allora, elegantissimi, la piccola con l'abitino inamidato e il cappellino di paglia o di cotone a falde larghe, col fiocco di lato, passavano prima da Fassi a piazza Fiume, per sorbire una Caterinetta nel bel giardino interno, seduti ai tavoli di ferro battuuto, poi si recavano a piazza di Siena, in mezzo al verde smeraldino macchiato dal bianco e rosso degli ostacoli, con la pioggia che immancabilmente faceva la sua fugace apparizione. Lo zio Achille, quando l'altoparlante annunciava i cavalieri, spiegava a Diana chi erano, le indicava i cavalli, bai, storni, afgani, inglesi: spiegava le differenze, insegnava alla nipotina le caratteristiche dei diversi purosangue e delle varie scuole. Poi iniziava il percorso, nel silenzio più assoluto, scandito dal galoppo dei cavalli, il salto, a volte l'asta di legno che cadeva, o il rumore della zampa del cavallo nell'acqua. Il Concorso Ippico Internazionale sarebbe sempre rimasto, per Diana, legato allo zio, alla sua vita con lui, e non ci era più tornata, dopo che era andata via da quella casa, nonostante allora fosse per lei un appuntamento immancabile e bellissimo. Ora Diana era cresciuta. Era andata via ormai da quasi vent'anni, le appassite che il vecchio si portava quando tornava dall'abbruzzo potevano rimanere tranquillamente appese nello stanzino integre, senza che nessun "topino" andasse a mordere di nascosto le "orecchiette". Come fingeva di adirarsi, allora! e come era triste e deluso di trovarle integre, ora! Si era fidanzata, e lui accoglieva sempre in casa con affetto e simpatia il suo compagno, nelle loro visite non frequentissime ma con cadenze certe. Si era poi sposata e lui era andato al loro matrimonio, con fatica, ormai stanco. Era stanco di una vita tanto lunga, tanto vuota. Gliel'aveva detto lo scorso Natale, quando erano andati per fargli gli auguri, che era stanco. Era stato poco bene, e loro due gli avevano chiesto premurosamente come andava. "Come volete che vada, oramai non ho più nulla da fare in questo mondo, aspetto solo di andarmene". Quando poi, dopo l'Epifania, Diana gli aveva detto di aspettare un figlio, lui era rimasto colpito. Non sapeva se essere contento o dispiaciuto. "Come, proprio adesso? Adesso che finalmente me ne potevo andare in pace, senza rimpianti, adesso ho un nuovo motivo di rimpianto, quello di non vedere questa creatura. Mi dai un motivo inaspettato per cui vorrei vivere ancora, quel tanto che basta a vederla". Lei aveva celiato: fra poco l'avrebbe vista, non doveva preoccuparsi, per l'estate il bimbo sarebbe nato e lui l'avrebbe visto. Ora tirava disperatamente il fiato: non ce l'avrebbe fatta, era agli sgoccioli. Poteva essere? proprio ora? Entrò Alfio, silenziosamente. "Come va zio, dormi?" "No, riposavo". Il pomeriggio era caldo, quasi estivo. Era aprile, la settimana della Passione, mancava poco alla Pasqua. Diana doveva venire a trovarlo, col pancione. Proprio quella mattina - la prima delle vacanze - aveva detto a Francesco che voleva andare, era preoccupata. "Andremo fra tre giorni, non morirà proprio adesso, non ti preoccupare", le aveva detto Francesco. "Preparo un po' di caffè, così ne prendi un goccio anche tu". Alfio aveva proprio bisogno di un caffè. Era uscito presto di casa, aveva preso due autobus per andare fin là. D'altronde non poteva lasciarlo solo. Dopo i quattro anni vissuti nella sua casa, se n'era andato alquanto bruscamente: era stato proprio lo zio a metterlo alla porta, dopo aver preso in disparte Diana per dichiararle tutto il suo affetto intatto. C'erano dei motivi, cercò di spiegare alla bambina frastornata, la vita aveva le sue leggi inesorabili. Ma lei doveva tenere bene a mente che era il suo unico affetto, il suo unico pensiero, il suo unico punto di riferimento. Le aveva anche detto, in quell’occasione, che pensava di lasciare l’appartamento, quando fosse venuto a mancare, ai nipoti di Roio, perché c’era “quella disgraziata, Marsilia”, aveva detto proprio così, e lo faceva per lei. Era d’accordo, non le dispiaceva? Diana aveva poco più di otto anni, ma era abbastanza matura. Gli disse che no, non le dispiaceva, e difatti mai più nel corso degli anni ripensò a quella cosa con rancore: l’aveva trrovata subito normale, e così poi sempre l’aveva considerata. Ora, nel momento estremo del bisogno, egli aveva potuto conoscere suo nipote, e ancor più sua moglie, la mamma di Diana, sotto una luce nuova, inaspettata: disponibili, pronti al sacrificio, nonostante i precedenti. Gliel'aveva detto, lui che era sempre così orso, con affetto, quasi con commozione. "No, grazie, magari lo prenderei fra un po'. Ora mi andrebbe un po' di ricotta. Potresti scendere a vedere se ne trovi, per favore?". Alfio andò. Scese i pochi gradini del portoncino, si trovò sulla strada assolata: un trenino azzurro, di quelli che vanno a Cinecittà, sferragliò rumorosamente sui binari. Alfio pensò che erano vent'anni che quei binari dovevano essere rimossi, ed erano ancora lì, e ad ogni passaggio di un treno tremavano i vetri, sembrava ci fosse una scossa di terremoto. Pensò che era stata una fortuna essere dovuti andar via da quella casa, era stato lo stimolo per riuscire ad acquistare un appartamento di proprietà, con sacrificio ma con soddisfazione, giù verso l'EUR. Fece i pochi passi fino al negozietto di alimentari, scese tre o quattro gradini e si trovò dentro. Fu avvolto dal fresco piacevole del seminterrato. Si fece incartare un etto di ricotta, pensando che era un buon segno che lo zio avesse fame. Risalì sulla strada, infilò il portone. Aperta la porta di casa disse allo zio che aveva trovato la ricotta. "Ecco, che faccio, te la metto in un piattino?". Si affacciò sulla porta della stanza per sentire la risposta. Il vecchio era appoggiato sui guanciali, il viso verso la finestra semiaperta, gli occhi sbarrati a vedere tutti gli anni che sarebbero venuti, tutti quelli che erano passati. 

Diana Cavorso 

19/10/2008

Letto 10049 volte Ultima modifica il Mercoledì, 17 Aprile 2019 12:23
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Ciao, sono NIcolino Cese e mi occupo della manutenzione di questo sito.

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