OspedaleClimatizzato

Un estratto dal libro " I PROGETTISTI E LA LUNA" di Domenico Galluppi - Edizione: Nuova Gutemberg

L’autista salì con fatica - lentamente forse a causa di devastanti reumatismi mai conclamati - i due scalini della corriera; poi si stravaccò (i frentani dicono: come fune fradicia), sul sedile di guida, braccia e testa penzoloni. Sfinito, chiuse gli occhi: doveva pur riprendersi dallo sforzo.
I passeggeri avevano già preso posto alla meglio su quello sgangherato mezzo di trasporto, ufficialmente “navetta” per il capoluogo e per pochi interessati ad andare a Roma.
Ognuno valutava, tra sé e sé, le reali capacità del meschino a girare la chiave di accensione e addirittura di partire.
I numerosi fumatori passeggiavano sul loro pezzo di marciapiede, ognuno a difesa della propria postazione, come peripatetiche in attesa di un potenziale cliente; aspiravano lentamente, senza alcuna fretta la loro ultima sigaretta.
A un osservatore poco attento davano l’impressione, nell’insieme, che stessero fumando, nella disperata solitudine che precede la morte, l’ultima sigaretta prima della fucilazione avanti al plotone di esecuzione. Un vecchio accigliato, in disparte, giocherellava meditativo con il suo sigaro; era indeciso se spegnerlo o buttarlo.
L’esuberante pilota tentò, fino a riuscirci, di introdurre la chiave d’accensione; tutt’altro sforzo fu girarla in senso orario e avviare il rumoroso e puzzolente motore. I tabagici, come i condannati guardano il dito sul grilletto del milite che sparerà loro, fissarono ipnotizzati la mano sinistra di Nuvolari, quella il cui dito indice era abilitato, se dio voleva, a premere il bottone di chiusura delle porte.
I precari e troppo speranzosi passeggeri, dalle loro postazioni, vagliarono positivamente e in tempo reale, che esistesse la remota possibilità di portare a termine gli obiettivi che li avevano spinti a salire su quel mezzo.
Contestualmente all’azione di girare la chiave il misero mosse anche l’altro braccio; le attente canne fumarie da marciapiede aspirarono, con un sensuale bacio, dalla loro sigaretta l’ultima tirata e buttarono via l’adorata cicca arroventata dalla loro erotica ingordigia e dal carnale vizio. Il vecchio dal toscano antico decise, dopo un lungo travaglio interiore, di soffocarlo sul palo di ferro che sosteneva il segnale stradale di fermata autobus; controllò con il dito indice che il braciere fosse realmente spento e con delicatezza lo introdusse in un taschino del vetusto gilet.
In perfetta fila indiana salirono tutti a bordo mentre il pilota, dopo una breve e intensa vibrazione muscolare, girò la chiave e premette il pulsante di chiusura porta.
Con un evidente sforzo mollò il freno a mano: prima, freccia.
Le gambe, forse più agili della parte restante del corpo o forse per istinto, in autonomia attivarono le manovre necessarie a spostare il mezzo: frizione e vai con l’acceleratore causa di sobbalzi, stridori strani e sbuffi neri. Il fetore della corriera venne coperta dal respiro puzzolente di tabacco degli ultimi passeggeri che, seduti, respiravano come pesci fuor d’acqua: già mancava loro l’adorato gusto e la gaiezza inebriante della catramina e della nicotina. L’immancabile logorroico infranse il cigolante silenzio che si impossessa di ogni mezzo pubblico appena si avvia.
Tanto per rompere il ghiaccio si rivolse agli sconosciuti vicini commentando le condizioni atmosferiche per sgusciare come un’anguilla, alla squadra cittadina e quindi, con una abilità da prestigiatore e senza logica alcuna, alla politica; metà passeggeri erano interessati, fumatori e non. Quattro donne sedevano due di fronte alle altre due, divise da un lercio tavolo che, qualche ventennio prima, un giulivo buontempone perditempo aveva spolverato en passant.
Forse stregate dagli scossoni della diligenza, le persone in generale e le donne in particolare riescono a raccontare verità impossibili da estorcere loro in una normale conversazione; spalancano candidamente la loro anima, come in confessione o come cozze dentro la padella bollente.
La più loquace volle raccontare le disavventure del figlio, laureato alla “Boccona” (sì, proprio così: Boccona): . Lei, la madre del maschietto arrapato, l’aveva già inquadrata e sconsigliata al figlio con le solite inutili parole: . Il marito della veggente, moribondo, aveva atteso invano una visita della nuora; il figliolo sprovveduto si recava spesso dal padre e in concomitanza, la apatica e antipatica dama preferiva andare in pizzeria con le amiche. dedusse, senza moderazione, la madre chioccia. Dopo aver dato a lei un nipote e al figlio un erede, la canaglia decise che era giunto il momento di separarsi pretendendo che il marito le concedesse (e l’ottenne) la casa in cui abitava con il neonato e un bel po’ di soldi, sborsati dalla narratrice per non mandare il figlio, laureato alla Boccona, a dormire in macchina (anch’essa della moglie) e a mangiare: . I grevi commenti delle astiose signore sollevarono (ne aveva proprio bisogno) il morale alla gongolante primadonna che abbraccio l’uditorio con uno sguardo materno e riconoscente.
In un perfetto e scolastico esempio di preterizione (1) espirò, carezzandosi la fronte quasi a volerla spremere: ; così non fu e rivelò con orgoglio, allo stupefatto e partecipe pubblico, che stava recandosi dal figlio per una settimana, quella in cui il bocconiano doveva accudire il figliolo-erede:. E così i selezionati passeggeri, partecipi della discussione - affratellati in una cerimonia catartica di purificazione o forse in un rituale esoterico che prescrive, di solito, il sacrificio di un capro espiatorio - all’unisono catalogarono la giuliva separata, senza giri di parole o metafore: prostituta. Una donnetta sin ad allora silenziosa, fu assalita da un rigurgito di creatività ed etichettò, senza appello, la infedele con un “gran puttanaccia”; i membri della setta arricciarono il naso perché l’espressione era troppo… volgare.
Costei imperterrita, per dare maggior forza al suo dire spregiudicato e anche per recuperare il tempo del silenzio ormai perso, concluse con una irriferibile pornografica apoteosi di perversioni, previsioni e commenti sulle donne moderne che: . All’unisono concordarono che non esistono più nemmeno gli uomini, i veri uomini di una volta: che, al momento (per loro) opportuno, distribuivano senza controllo schiaffi, cazzotti e calci; la pornografa concluse che le donne vanno trattate con . A seguire intervenne la intellettuale del gruppo con: ; parafrasava un vecchio proverbio abruzzese sostituendo arditamente “i figli” con moje”. Ormai i fumatori avevano saturato con il loro orrendo respiro ogni pertugio dell’abitacolo; il timore di tutti era che questo puzzo avesse dato spunto all’autista per fare una penichella alla guida: i suoi pensieri e azioni erano inpenetrabili a causa degli occhiali indossati, neri neri, più adatti a un videoleso. Il suo corpo assecondava i sobbalzi del mezzo e lo sterzo si muoveva, liberamente di conseguenza.
Un ronzio lo scrollò o svegliò; con difficoltà distolse la mano sinistra appollaiata sullo sterzo e con vera, raffinata classe, estrasse dalla elegantissima e un po’ lesa (è un eufemismo – lo dico per coloro privi di senso dell’umorismo) giacca di servizio, un cellulare il cui modello non è più ricercato nemmeno dai collezionisti ma forsennatamente dai musei.
< Ahoo! Chi è?> esclamò il docente universitario declassato ad autista
< Ahum! ‘Nzi capisc nu cazzh. Chi sì?>…….
< Ahum! cummare ‘Ntunietta, non prendevo la linea.
< Ahum! Dimmi commara>…
< Ahum! Ah! ?Ntonie ‘n’é riminuto innotte!?>…
< Ahum! Forzh ‘zhè durmite sopra l’apetta!>……
< Ahum! Ah, sta aesse l’apetta!>…..
< Ahum! Forze ‘zè ‘mbriacate e sta sotte a cacche fratt>……
< Ahum! Ah, tu pins ca ‘zà addurmite ‘nghi kella zoccole di cunateme?> ….
< Ahum! Ah! Li si vist a ‘ndrà!?!?>…….
< Ahum! Chella puttanaccia disgraziate!!! Frateme sta a lu Belge a schiattà lu sangh a la minihiere e sà vacca ‘zi fa ‘ngroppà da lu prime che i li cerch>…..
< Ahum! Eh che taja dice cummà? Cacche jurre chiame frateme e ja ricconte tutte e cuscì la finimme ‘nghi sta cummedie. Puttanaccia. Scrofa!!! Menu male ca chelle bonaneme dh mamme e tate ‘zhannh morte!!! Ahum! Non avessero supportate stù disunore>……
< Ahum! Ciao cummà, ci sintime uje, kandarivinghe!>.
Guardò nello specchietto interno e raccolse la muta partecipazione al suo dolore da parte di tutti i passeggeri. Qualcuno, “rattuso” seriale, indagò con discrezione per appurare il nome di questa donna così disponibile, di che paese fosse e senza alcuna malizia se, casualmente, qualcuno dei passeggeri a bordo avesse, sul proprio cellulare, il numero della fedifraga. Sfiduciato da tante miserie umane da lui ascoltate e trasportate, il fratello del cornuto accese una sigaretta senza filtro, alla faccia della imposizione VIETATO FUMARE e alla faccia dei passeggeri fumatori.
Con raffinata perizia riusciva a espirare da un piccolo varco aperto alla sinistra delle labbra serrate e con una lunga e collaudata tecnica, infilava alla perfezione le sottili spirali di fumo nel pertugio del finestrino aperto alla sua sinistra. Poiché la classe non è acqua, raccolse con due dita, dal polveroso cruscotto, una altrettanto impolverata caramellina alla menta che introdusse delicatamente in bocca. Illanguiditi dal rollio e dal frastuono, affratellati in questa estemporanea avventura di viaggio, ognuno confidava ai vicini i fatti propri e i veri motivi del viaggio.
Motivi per la maggior parte futili ma non per la intelletuale a bordo che chiese - rivelando in tal modo a tutti la cagione del suo viaggio - all’afflitto autista, di fare una fermata extra avanti all’ospedale “climatizzato”. Scese regalmente i tre scalini; raccolse e accolse gli auguri di tutti i passeggeri e in sovrappiù, anche quelli dell’autista che, con gli occhiali funerei sulla glabra fronte, era stato attratto improvvisamente dal lato b della signora che, vezzosa, lasciò intendere di apprezzare lo sguardo lascivo.
Nessuno, nonostante la ripetitività dei viaggi sempre per la stessa città, aveva avuto l’acutezza indispensabile o i titoli accademici necessari per leggere la scritta a caratteri giganteschi posta sul tetto dell’immenso nosocomio: OSPEDALE CLINICIZZATO Al capolinea, la stessa misteriosa casualità che li aveva affastellati dentro quel mezzo, impose ad ognuno di riporre furtivamente, nell’invisibile zaino della individualità, il pesante fardello dei propri pensieri abbandonati sì, per una manciata di ore, al libero pascolo ma intimamente valutati i più seri tra quelli, goffi e grotteschi, che vagavano sfrenati e affrancati tra i lerci sedili del mezzo. Si separarono l’un dagli altri come le navi si staccano dal porto e abbandonano la sicurezza della banchina.
Tirati fuori a forza dalla effimera bolla del tempo in cui erano immersi, ogni passeggero riprese il suo eterno solitario cammino, stanco portatore di celate passioni e angosce condivise in quel confessionale di gomma, vetro e metallo.
Ognuno alla ricerca del primigenio rifugio ove rintanarsi, celato tra le inesplorate e pericolose periferie dell’anima. Avevano condiviso, per centoventi minuti, l’equipollente esperienza metafisica (2) di astronauti forzati negli spazi angusti della stessa navicella, proiettati verso il medesimo obiettivo ma con motivazioni e fini diversi.
Sotto la pensilina, chi ne ebbe voglia, accese una sigaretta. Qualcuno tentò, inutilmente, l’ultima ed estrema investigazione per avere maggiori informazioni sulla cognata dell’autista che già sonnecchiava, seduto al posto di guida della corriera, ormai con il motore caldo ma spento. Il vecchio tirò fuori dal taschino del gilet il mozzicone di sigaro; un attento passeggero raccolse la sua silenziosa richiesta di fuoco: con un “prospero” glielo accese.
L’anziano uomo ringraziò, soffiò sul braciere, lo attizzò. Poi, lentamente, si allontanò.
(1) Per coloro che, come me, non hanno fatto il liceo; Preterizione: Figura retorica che consiste nell'affermare di non voler dire una cosa, proprio mentre la si dice.
(2) La metafisica (don Settimio perdonami!!!) è il tentativo di trovare e spiegare la struttura universale e oggettiva che si ipotizza nascosta dietro l'apparenza dei fenomeni.
Sorge l'interrogativo se una tale struttura, oltre a determinare la realtà, sia in grado di determinare il nostro stesso modo di conoscere, attraverso idee e concetti che trovano corrispondenza nella realtà; al di là, sopra, oltre.

Leggendo il precedente messaggio mi fa ricordare anche a me di una Pasqua di tanti anni fa 1956, quando con Peppino mio fratello nascondevavo delle uova dal pagliaio di mio padre per averne una quarantina e poi fare delle pupe per Pasqua, ma purtroppo qualche giorno prima mio fratello Fernando che ancora non aveva 8 mesi si ammalo' gravemente, Don Libero veniva frequetemente a visitarlo ma a la vigilia disse questo bambino non arrivera' a Pasqua. logicamente tutti sconvolti, Romolo stava facendo la piccola cassa bianca, ma nonostante tutto noi pensavamo alle 40 uova e le pupe! portammo le uova da mia sorella Maria ma lei disse nznparl, la mattina Di pasqua mentre le campane suonavano a distesa qualcuno disse a mio padre e arrivato lu mdchic Dr. DiCarlo, mio padre corse da lui spiegandogli la situazione immediatamente vinne senza neanche finirsi a fare la barba lo visito' e disse, al bambino le manca il calcio gli fece la ricetta dopo 2 ore dalla prima ignezione tutto tono' al normale, Maria si presento con 2 pupe si era alzata alle 4 del mattino e quelle pupe avevano un sapore speciale.Fenando gode di ottima salute, piu volte tornando a Roio ho detto al caro Dottore grazie per aver salvato mio fratello e la sua risposta e stata sempre uguale un sorriso e una pacca sulla spalla, e continuava per la sua strada, con grande rispetto voglio ancora una volta ringraziare il Saggio Dottore, UN GRANDE DI ROIO, persone come lui questo mondo ne a tanto bisogno. saluti caramente a tutti i roiesi. 

Mastrangelo Santino 

 il 09/04/2007

(Villa S. Maria, 1935) Una settimana prima di pasqua, a volte prima ancora della domenica delle Palme, io e la mia piccola sorella Leda cominciavamo a chiedere: “Mamma quando inizi a fare i dolci di Pasqua?”... e mia madre, con tutto il daffare che aveva, trovava sempre la frase adatta a spiegarci “che era troppo presto per iniziare a preparare le pupe ed i castielle, ed aggiungeva come ulteriore e finale spiegazione “che te ne fai di un castielle che per il giorno di Pasqua sará duro come una pietra?”... e tanto bastava a noi bambini per tenerci a bada per alcuni giorni.Poi, un giorno, quando meno ce lo aspettavamo, vedevamo nostra madre con passo lesto, nonostante la sua mole, col cestino porta uova in mano, quello di fil di ferro con la pancia rotonda e larga che si ristringeva verso l’alto, per terminare con la svasatura, pieno zeppo di uova. Era il segnale! Pasqua era vicina e con Pasqua i dolci da portare al Santuario della Madonna e dopo una veloce benedizione li mangiavamo li sul posto, li sul prato antistante la chiesa.... un dolce grande tutto per me, senza alcuna restrizione....! E, quell’apparire di mia madre, col cestino delle uova, era per noi ragazzi l’inizio di una gioia silente che si sarebbe protratta nel tempo e qualche vago ricordo e’ rimasto fino ad oggi. Immediata era la nostra presenza , mentre mia madre vicina alla madia, sulla spianatoia, andava accumulando farina e zucchero, dopo averli pesati, le uova, un limone, la grattugia, la stessa che utilizzavamo per grattugiare il pecorino...e poi tirava fuori dal “mantesine” due bustine di lievito vanigliato “Bertolini” e per finire la bottiglia di olio di oliva era li, sulla spianatoia torreggiante sugli altri ingredienti. Le mani di mia madre bucavano la montagnola di farina dall’alto, ed ecco, quasi per magia formarsi “la fontanella” nella quale anche noi bambini potevamo rompere le uova; “attenti al guscio” ci ammoniva mamma” e poi giú tutto quel ben di Dio. La festa della redenzione iniziava la domenica, ma i nostri cuori innocenti erano gia’ in armonia col mondo intero ed in comunione con quello di nostra madre. Oggi, ad ottant’anni, quando i pensieri si incupiscono e l’orizzonte si vela di nuvole corsare che si formano e di disfano con velocitá, e che potrebbero essere foriere di tempesta, in quei momenti, cerco negli anfratti della mente, i miei ricordi da fanciullo, quelli semplici ed innocenti, come quelli descritti per i dolci di Pasqua; come per un prodigio, che solo ai bambini e’ permesso di vedere, quelle stesse nuvole che tendevano al brutto, ora, esse rallentano la corsa, si trasformano in cirri e tendono al rosa; la mente si rasserena e sia pure per pochi minuti, il cielo tende di nuovo al bello. Sento una profonda gratitudine per questa madre con cinque figli da accudire, capace di pianificare giornalmente la giusta quantitá necessaria di tempo per la clientela della bottega, avere la pazienza e le giuste maniere per educarci ad una armonia familiare che ha resistito negli anni; e’ tutto qui, puó essere poco o tanto, dipende dai punti di vista; forse contentarsi di piccole cose, se donate con generoso amore, ne rimane traccia negli anni e rivisitarle di tanto in tanto, ci fara' ancora rivivere momenti indimenticabili.. 

Dante Fantini  

  il 09/04/2007

(Storie e Personaggi di Villa Santa Maria)
Il Maniscalco Gaetano era persona dal fisico robusto, l`abbronzatura del viso si accompagnava ad una severita` dello stesso, braccia possenti, mani ruvide e forti.
A volte, Gaetano mi permetteva di girare il ventilatore della forgia; restavo affascinato nel vedere il mutamento di colori che assumeva il carbone; da nero, con l`ausilio del soffio magico della forgia, esso diventava rosso, poi rosso vivo ed infine bianco, al massimo del calore.
Era un vasto locale quello di Gaetano, buio, con una piccola finestrella in alto, la sola fonte di luce, oltre che l`ingresso.Cosi i ferri violentemente battuti col martello sprizzavano scintille al di sopra dell`incudine, rischiarando la stanza ad ogni battuta.
Io guardavo incantato questo omone maneggiare gli strumenti dall`aspetto sinistro; tenaglie, tronchesi, morse, seghe per metalli, grossi catini di pietra, una volta usati come truogli per maiali. Gaetano infilava in questi recipienti colmi di acqua i metalli incandescenti ed il liquido frigolava in una nuvola di vapore.
Col tempo mi e` capitato di leggere qualche libro di mitologia e mi sono ricordato di Gaetano, come del Dio Vulcano della mia infanzia; il Dio del fuoco Etrusco, ma anche il pedicure degli asini, muli e cavalli; egli tagliava, limava gli zoccoli e vi applicava il ferro rovente ed esso sfrigolava un lezzo di unghia bruciata si alzava verso l`alto come incenzo propiziatorio alla buona riuscita del lavoro. Questa procedura puo` sembrare una crudelta` gratiuta, ma era cosa utile , affinche` la calzatura dell`asino trovasse sede appropriata nello zoccolo bruciando la parte in eccesso di esso, adattando lo zoccolo al ferro.
Ed io, spettatore timoroso, speravo che l`asino non soffrisse e pregavo silente che Gaetano si sbrigasse e togliesse quella scarpa rovente dallo zoccolo del quadrupede, cosi la mia sofferenza e quella dell`asino cessasero al piu`presto.
L`ultima parte del lavoro di Gaetano, era fissare il ferro allo zoccolo con cinque chiodi di alluminio a testa quadrata; il chiodo doveva penetrare per qualche centimetro nello zoccolo ed uscire la parte esterna dello stesso, senza toccare la parte viva, la parte irrorata dell`unghia. La parte sporgente del chiodo veniva tagliata con le tronchesi e la lima smussava il residuo del chiodo. A lavoro terminato il ruvido Gaetano diveniva anche pedicure del mulo con un pennello intinto d`olio minerale esausto, dal colore scuro, spennellava lo zoccolo per rendere lucente la nuova calzatura del mulo. Poi, il quadrupede si avviava verso una nuova giornata di lavoro, preceduto dal proprio padrone con cavezza in mano, mentre Gaetano lanciava il suo ultimo sguardo per valutare il buon incedere del quadrupede e quello curvo del padrone. 

Dante Fantini 

Villa Santa Maria  il 09/07/2007

Le mie vacanze quando ero piccola, le trascorrevo a Roio del Sangro, ospite di mia nonna Pia, vedendo questa foto mi sono ricordata di come era questo paese prima della guerra.le distruzioni viste in questa foto per opera dei tedeschi in ritirata, mi riportano alla mente la forte figura di mia nonna, la quale pur restando vedova in giovane età, e con due figlie piccole da accudire, senza pensione e senza altri proventi , riuscì sostenere la sua famiglia con l’aiuto di un quadrupede , facendo piccoli trasporti locali. Per arrotondare le entrate famigliari faceva la supplente per il trasporto della posta da Roio a Villa Santa Maria.L’aiuto del quadrupede venne a mancare perchè i tedeschi lo requisirono,così mia nonna si ritrovò senza mulo e senza casa, giacchè i tedeschi fecero terra bruciata ... distrussero anche la sua casa. Le mie vacanze estive le trascorrevo in quel delizioso paese. Ricordo il viaggio da Roma a Caianello,in compagnia dei miei genitori e mio fratello Peppe,il viaggio era infinito giacchè,dopo bisognava prendere un altro treno fino a Castel di Sangro,il viaggio non era ancora terminato, bisognava prendere il treno , fino a Villa Santa Maria ,dove ci rifocillavamo al buffet della stazione, mia nonna ci attendeva con il mulo per percorrere il tratto fino a Roio.Questa foto mi rattrista tanto,l’unica cosa visibile che mi riporta ai tempi felici della mia fanciullezza, è la fontana ;ricordo il maniero che penzolava da una catenella, e invitava i passanti a dissetarsi di quell’acqua purissima.Con le mie amiche, Antonina la paparella, mia cugina Maria lu seggiar ,Imma Carrea, andavamo a lavare la piccola biancheria,al lavatoi all’aperto,sulla sinistra della fontana.Le mie vacanze se pur rustiche me le ricordo tra le più belle della mia vita.Per adesso basta , il seguito alla prossima e-mail.Italia Fornari, settembre 2007.



ITALIA FORNARI

il 11/09/2007

57 anni fa nel mese di ottobre presi l'aereo della K.L.M. da Roma per un viaggio che doveva condurmi all'estrema punta dell'Africa, e precisamente nella città dell'oro "Johannesburg". Avevo 21 anni e per la prima volta provai l'emozione di un volo che doveva condurmi da mio marito che lavorava al Carlton Hotel di quella città.La cosa inusuale per quei tempi era sposarsi per procura , cosa che feci senza esitazione ,presa dall'entusiasmo di raggiungere al piu' presto l'uomo che amavo; l'alternativa era un viaggio via mare che avrebbe impiegato 21 giorni;troppi. Cosa importante ,con me e con le stesse esigenze , viaggiava la mia amica Marcella anche lei per raggiungere suo marito Ugo. Il viaggio con il quadrimotore ad elica doveva impiegarci 12 ore; un imprevvisto guasto tecnico al velivolo, ci costrinse ad un atterraggio di emergenza a Brazzaville nel Congo Brazzaville a quei tempi era poco piu' di un grosso villaggio;ci ospitarono per la cena e il pernottamento in un albergo poco distante dall'aereoporto ,nel bel mezzo della jungla, un albergo ad un solo piano , dove si percepiva la presenza di animali selvatici,dal barrito di elefanti,ai guaiti lamentosi di altri animali. Inutile dire che eravamo spaventate trovandoci per la prima volta sole in una situazione imprevista e così distante dall'Italia e dalla nostra mèta. Impossibile comunicare per telefono con i nostri mariti per il ritardo dell'apparecchio, e non sapendo quando saremmo potute arrivare a JHB . La compagnia aerea fu molto efficiente in questo caso ,oltre la sistemazione alberghiera ,col pullman ci condussero nella giungla a vedere un ponte africano sospeso su una voragine dove scorreva un fiume e si potevano scorgere gli ippopotami al pascolo. Io.coraggiosamente mi rifiutai di attraversare questo traballante ponte e rimasi sulla sponda di questo dirupo, la mia amica Marcella , invano mi incoraggiò ad attraversarlo. A cena, ci servirono un buon pasto , che io e Marcella non assaporammo come meritava ; eravamo preoccupate per la sistemazione della camera da letto che ci avevano assegnato , situata al pianoterra. A fine cena ,con il mio stentato inglese ,chiesi alla signora che aveva pranzato al tavolo accanto al nostro,"could you please ,come to sleep with us tonight?" Naturalmente ,il mio inglese non mi consentiva di spiegare che la nostra richiesta era dovuta al timore ,di dover affrontare la notte in quella stanza al pianoterra dove gli animali della giungla erano poco distanti da noi .La risposta di questa signora ,molto probabilmente sudafricana,fu un netto diniego. Un'altra signora ,svedese, che aveva ascoltato la nostra richiesta ,si offrì di farci compagnia,avendo intuito i nostri timori ,considerando la nostra giovane età e intuendo i nostri timori. Il giorno successivo,prima di imbarcarci ,ringraziammo la gentile signora svedese con una stretta di mano e un sorriso dal quale traspariva tutta la nostra felicità;dopo quattro ore di volo,l'aereo inizio' la discesa sul vecchio aeroporto di Johannesburg , Palmifontain.Le colline di sabbia aurifera,risplendevano al sole;era il benvenuto che la città ci inviava,e,Marcella Campedelli e Italia Fornari,incosapevolmente risposero con un sorriso giovanile pieno di fiducia verso il nuovo paese che ci accoglieva. Questo racconto ,è come se fosse stato scritto a quattro mani; le emozioni,i timori,la gioia che abbiamo condiviso le abbiamo rivissute innumerevoli volte,in oltre mezzo secolo di affettuosa amicizia. Paolo,Claudio,Fabio e Daniela,sono stati i frutti di quel matrimonio celebrato per procura e concretizzatosi in quattro bravi "uagliune". E' tutto per questa volta; un saluto a tutti i miei conoscenti da Italia Fornari Questo semplice racconto è stato possibile scriverlo grazie ad Ugo di Cicco, Dante Fantini, Marcella Campedelli ed Italia Fornari!.

Italia Fornari 

il 03/02/2008

Tanti, ma tanti anni, sono trascorsi da quando questa storia è accaduta; io stesso, ne sono stato testimone e anche parte in causa.
A quei tempi, non era di moda la paghetta settimanale;i ragazzi ricevevano qualche lira per le feste natalizie e per quelle padronali;le tasche dei pantaloni erano quasi sempre prive di quel tintinnìo argentino che rallegrava il cuore e rifrancava lo spirito.
Il ragazzo protagonista, e, il testimone, avevano la stessa età, fisicamente si somigliavano.....
Mancavano pochi giorni alla grande festa della Madonna in Basilica;il gelataio ambulante vantava il suo prodotto gridando e spingendo il bianco triciclo che custodiva il freddo dolce, al gusto di vaniglia o cioccolato;
I coni di cialda, da 10 e 20 centesimi, erano in mostra in una teca di vetro;un silente invito ad assaporare quella delizia.
Al corso, di Villa, accanto al Dopolavoro, la baracchetta del tiro a segno era stata eretta,pronta ad accogliere i primi clienti; anche i banchi che esponevano noccioline tostate,lupini salati e fette di cocomero rosse come il fuoco,erano lì,pronte a soddisfare i clienti,dietro pagamento del dovuto prezzo.
Il ragazzo era senza un soldo, guardando quelle leccornie,la parte biricchina, decise di tornare a casa e frugare nelle tasche dei suoi genitori,nella speranza di trovarvi qualche spicciolo e poter soddisfare alcuni dei suoi numerosi desideri. Avrebbe potuto chiedere un anticipo ai suoi genitori sul probabile regalo per la festa imminente; ma quale giustificazione li avrebbe convinti?Nessuna! Rovistò tutte le tasche dei vestiti materni e paterni,nel grande armadio in camera da letto,senza trovare nemmeno i dieci centesimi,necessari per comprare un cono gelato. Stava per uscire da casa, quando fece l’ultimo tentativo;frugare a tentoni con la mano,i ripiani alti dello stipo della cucina.I polpastrelli del ragazzo tastavano dove lo sguardo non poteva,alzando tazze e altri oggetti che potevano celare qualche soldo; improvvisamente, le dita sfiorarono delle cose liscie e mobili,e,nello stesso tempo, prima di vedere,il suo cuore inizio a battere freneticamente. Forse i suoi desideri,quella voglia di impadronirsi di moneta,poteva essere finalmente soddisfatta; la sua coscienza (ciò che ho chiamato "il testimone" ) che era rimasta silenziosa fino a quel momento,pian piano prendeva posto nella sua mente," ;stai commettendo una cattiva azione,stai rubando ai tuoi stessi genitori." Prevalse la fisicità di quella mano,essa divenne adunca e non seppe trattenersi dal prendere le due monete del valore di due lire ciascuna;inutilmente, la voce della sua coscienza continuava a farsi sentire sempre più flebilmente,fino a chetarsi del tutto. In quel periodo,la casa paterna,oltre i miei genitori era abitata dalla mia piccola sorellina di quattro anni ed io, di sei. Quando i miei genitori,rientrarono a casa,dopo aver chiuso bottega,mia madre disse;"Balisà ,(Belisario) ho venduto due pagnotte di pane,i soldi sono nello stipo sul piano alto." A quelle parole,non so che espressione assunse il mio viso,certamente una improvvisa confusione si impossessò della mia mente ,forse un rossore sulle guance.... Volevo tornare indietro nel tempo e non essermi appropriato di quei soldi;avrei dovuto ascoltare la mia coscienza;i soldi mi bruciavano nelle tasche dei pantaloni;avevo separato i soldi in due tasche per evitare un possibile tintinnìo.... La voce di mio padre,si fece strada nella mia confusione mentale e giunse alle mie orecchie come cinque di fucile;"Laurè,qui non c’è niente"! Il viso di mia madre e lo sguardo indagatore si concentrò sul mio volto,solo per un istante;fu sufficiente, per farmi pronunciare a mia discolpa la seguente frase;"giuro che non sono stato io." "Giurare è una cosa seria,non si giura,così,tanto per parlare.Vedo che hai finito di cenare,vai a dormire." Mi affrettai ad alzarmi e senza alcuna protesta mi diressi verso la mia camera,sollevato per essermela cavata così a buon mercato.Perchè mio padre non era intervenuto con la sua autorità in tutta questa vicenda? Questa domanda si affacciò alla mia mente,senza che io trovassi una risposta logica. Mi sedetti sulla sponda del letto,mi tolsi le scarpe e misi in ciascuna di esse una moneta che avevo in tasca. Adesso sono sicuro,pensai,domani sarà un gran giorno....gelati,noccioline,lupini... e ancora tanti gelati. Appena mi misi a letto,sentii i passi di mia madre che salivano le scale... Con sollievo pensai alle tasche vuote.... La prima cosa che fece mia madre,fu di rovesciare le scarpe.... Quel tintinnìo delle monete che cadevano sul pavimento,perforarono le mie orecchie come un trapano a percussione.... "Domani sera,noi andiamo a sentire la banda,ci sediamo da Ciccillucc e gustremo un grosso gelato,-ed aggiunse-e tu resterai qui a dormire!" Con questa frase mia madre chiuse il discorso ed io accettai la punizione come cosa giusta. La sera successiva,(la festa della Madonna) finita la cena, mi alzai da tavola e mi diressi verso la mia camera,sperando in un ripensamento dei miei genitori.....che non ci fù. Questo era lo stile di vita di una volta. 

Dante Fantini  

 Roma 22 Febbraio 2008

La chiave non gira nella toppa della vecchia porta della soffitta; da anni non viene aperta.
Prendo dell’olio e intingo l’estremità della chiave in un barattolo,la inzuppo come facevo nella tazza da bambino col pane nel latte tiepido.
Infilo di nuovo la chiave e sento che la serratura inizia a girare,un’altro giro e la porta con un cigolio degno di un film giallo si apre completamente.
Dal basso soffitto vecchie ragnatele pendono appesantite da anni di polvere.
Il pavimento in mattoni è ricoperto da un sostanzioso strato di polvere.
Giù in fondo,poggiato per terra,un grosso fagotto rettangolare avvolto in un telo di plastica;non so cosa nasconda...
Mi accosto,con circospezione,temo che qualche topo vi sia nascosto dietro.
Con cautela apro l’involucro, una nuvola di polvere si solleva, il raggio di luce che entra dalla porta e ne evidenzia un movimento verso l’alto;polvere di stelle della mia gioventù sono imprigionate in questo angusto spazio.... La vecchia radio Magnadyne a cinque valvole,era lì,con quattro manopole e l’occhio magico;ultima innovazione tecnologica, sul vetro, le stazioni trasmittenti stampate in rosso e verde, un mistero nella mia mente di fanciullo.
Mio padre l’aveva comprata nel 1940, per ascoltare il giornale radio delle ore tredici e ripetuto alle venti,ma anche per udire Radio Londra dove Mario Appelius,confutava le notizie di regime.
I messaggi cifrati per i partigiani. 

Dante Fantini  

il 03/09/2008

Giovanni, Giovanni! Non ne posso più! Si deve pur vedere cosa ha da farsi! E' da stamattina che giro per casa come una matta! - - Sii buona Concetta, cerca di capire. Non è poi così difficile, sai? Sei tu che vuoi fartene un dramma per sbarazzartene. - continuò Giovanni - Pensaci un po',non è un soprammobile, sai? Che cosa devo fare? Dimmelo!
Ricorda che alla fine si diventa tutti vecchi. e allora?
- Da qualche tempo, oramai, la storia si trascina; spesso sono dovuti intervenire i vicini per sedare le liti tra i due. Giovanni, buon'uomo, tutto casa e lavoro; tornando a casa, dopo il duro lavoro nei campi, deve sempre vedersela con la moglie Concetta, alla quale per la sua provenienza da famiglia agiata, abituata nella casa paterna alla servitù e beni d'ogni genere, veniva difficile ora avere a che fare con il vecchio Pietro che, per la sua veneranda età e gli acciacchi ereditati dalla dura vita campestre, era costretto a stare quasi sempre seduto e quindi a dover chiedere, ogni qualvolta ne avesse bisogno, aiuto alla nuora.
Una situazione che, a Concetta, era divenuta pesante, tant'è che spesso rimproverava il marito per non averle dato ascolto quando gli suggeriva di portare suo padre all'"Ospizio"(1) -
Questa, dove abitiamo, è la casa che s'è costruita mio padre con grandi sacrifici! Continuava a ripetere il marito.
- Egli ha qui dentro tutti i suoi ricordi! Lo capisci o no? Come faccio a toglierlo da qui? Come posso portarlo in un posto dove sicuramente soffrirebbe di più nel vedersi abbandonato, dopo ciò che ha fatto per i figli? Sette figli, e tutti emigrati per l'Italia in cerca di lavoro; qualcuno s'era già impiantato con la propria famiglia in una di quelle città, e Gianni, terzogenito, avendo trovato lavoro a Belmonte Mezzagno, paese natìo della famiglia, era rimasto ad abitare nella casa paterna, dove già da anni, morta la moglie, il papà viveva da solo.
La storia continuava a portarsi avanti per lungo tempo; erano già venuti al mondo Pietro e Vincenzino.
Pietro, non appena il nonno apriva bocca, subito gli era accanto.
- Cosa vuoi, nonno? Come stai? - Ho solo dato un colpo di tosse, caro il mio Pietro; su, giacché sei qui siediti, voglio raccontarti una storia.
Devi sapere che tantissimi anni fa, quando la fame e la miseria abitavano quasi tutte le case del nostro piccolo paese.
- Ancora con le favole! E i compiti? - interveniva Concetta inviperita
- Su, vieni a studiare se non vuoi iventar somaro! Quasi che ella non digeriva nemmeno i racconti del vecchio al piccolo Pietro.
- Ma, mamma! - - Niente mamma! - Continuava, borbottando sottovoce frasi verso il vecchio che, a causa della sopraggiunta cecità, non riusciva a scorgere la nuora e capire quant'ella mugugnasse. Il tempo passava, i piccoli cominciavano a farsi adulti; e per il vecchio Pietro gli anni diventavano sempre più pesanti.
I diverbi tra marito e moglie, anziché finire, crescevano sempre più, tanto che il marito per evitare che i figli continuassero a sentire, si convinse a portare il padre in quella casa per anziani: l'"Ospizio". E così, di buon mattino, mentre i figli e la moglie dormivano, si mise in spalle il povero padre e iniziò la strada per Palermo.
Non esistevano mezzi di trasporto in quei tempi. Lungo la strada. o meglio il viottolo che sale per la scorciatoia che da Belmonte porta alla città, (vi era e c'è ancora) uno spiazzo, un grandissimo spiazzo con una enorme quercia dove ancora oggi nidifica l'usignolo, e al centro una piccola sorgente "a Giarritedda".
Giovanni, stanco e sudato, si fermò per riposare e bere un po' d'acqua, adagiò il padre su una grossa pietra accanto alla sorgente ed emise un rantoloso sospiro: "Ah!" Il vecchio Pietro d'un colpo capì quanto stava avvenendo, e disse al figlio:
- Eh, figlio mio, anch'io ebbi a tirare un sospiro quando adagiai mio padre proprio in questo posto, dove tu ora hai adagiato me, mentre lo portavo all'"Ospizio".
- Giovanni rimase impietrito a guardare suo padre, e capì quanto egli disse e il significato di quelle parole; si rimise il padre sulle spalle e, anziché Palermo, fece la via del ritorno.
Pensava e ripensava, lungo la strada, a quelle parole dette da Pietro: "anch'io sedetti mio padre e tirai un rantoloso sospiro, in questo posto, dove tu ora hai adagiato me."
Quelle parole pesavano più di quanto egli portasse sulle spalle.
E mio figlio? Pensò.
Mio figlio, quindi. avrebbe dovuto un giorno non tanto lontano.
Per questa strada.
Era orribile quanto pensava; ma era pur vero che, per accontentare le isteriche voglie di sua moglie. li avrebbe educati. "Certo!" "La moglie!" continuò a pensare.
-Aspetta che torno a casa e sentirai cosa ho da dirti!
- Parli con me, Giovanni? Fece Pietro; mentre il sole cominciava a sciogliere la rugiada mattutina e l'usignolo a riprendere il suo soave verso. (1) (allora, casa di cura per anziani)
Se avete un giornale o una rivista e... se volete,
Vi autorizzo a pubblicarlo; mi auguro che me ne invierete una copia!!! Conoscerei così anche parte dei Vostri posti.  

Rocco Chinnici

Via Adone Zoli 19
90031 Belmonte Mezzagno (PA)

Dopo le note curve del bivio Agnone-Capracotta si apriva l'ampia visione della piana di Agnone, distesa lungo il dorso della montagna come la sella sulla spina dorsale di un somaro: intorno, le creste dei monti più alte, il gradino di Prato Gentile e il folto vello boscoso del cerreto, al di là del quale c'era Roio. Alfio era disturbato nel godimento della vista di quel paesaggio familiare dal continuo parlare di sua moglie, ma comunque il suo animo s'apriva, come sempre, nel respirare quell'aria, l'aria del suo paese, della sua infanzia, del suo passato. Ad Agnone si fermarono sulla piazza Italia, come erano soliti, per comperare qualcosa: un po' di frutta, pomodori, qualche scamorza e mozzarella fresca, una focaccia di pane calda di forno. Ripartiti, la strada s'inerpicava e ridiscendeva in mezzo ad un vasto altopiano senza alberi, costellato qua e là di casali fra il fieno e le rocce. Quante volte aveva fatto quel percorso nella piccola corriera rossa di Cerella, che si prendeva ad Agnone dopo una sosta di circa mezz'ora, scesi dalla più grande corriera azzurra che in circa cinque ore aveva coperto i duecento chilometri o poco più che dividono Roma dalla cittadina molisana! Ad un certo punto la piccola corriera era solita fermarsi, in piena campagna, e l'autista scendeva a prelevare un cestino di ricotta messo sul bordo della strada, in cambio del quale lasciava un contenitore vuoto: tutto intorno, il deserto. Ogni tanto, a una curva, saliva una donna avvolta nello scialle triangolare con una lunga frangia: emanava odore di stalla, di pecora, di formaggio, era bella, molto spesso, con occhi azzurri e capelli chiari, giovane, ma sempre con quell'odore addosso e lineamenti duri, marcati. Oppure era un contadino a salire, con la barba non rasata, la giacchetta aperta su una camicia a quadroni, stile cow-boy, il bordo giallastro della canottiera che si vedeva sotto i primi bottoni slacciati, le mani rugose e callose che penzolavano fuori dalla manica troppo corta. Ogni tanto qualcuno scendeva. La corriera c'era ancora, ma lui era tanto che non la prendeva più, oramai. Si stancava troppo, ora, non ce l'avrebbe fatta a sopportare senza conseguenze un viaggio così pesante e scomodo. Quand'era bambino, ricordava, i vecchi li facevano anche a piedi quei venti chilometri, altrimenti il mezzo adibito era la mula, o al massimo il cavallo. L'aveva fatta anche lui a cavallo quella strada, parecchie volte, dietro suo padre. Ricordava un giorno d'inverno in cui aveva dovuto farla da solo per andare a chiamare il dottore ad Agnone. Era già buio, in inverno le giornate sono corte, specialmente fra i monti. Arrivato all'altezza del cimitero, circondato dal terrore derivante dai racconti terrificanti delle nonne e delle vecchie zie, cominciò a vedere delle luci che si muovevano: i "fuochi fatui" che ballavano la loro macabra danza! Il sangue gli si gelò nelle vene, i peli si rizzarono, un sudore freddo cominciò a colargli da tutti i pori: nascose la testa fra la criniera del cavallo, per non vedere, e via, al galoppo. Ormai il terrore s'era impossessato di lui: dietro ogni curva si aspettava di vedere uscire da un agguato quei briganti che avevano assalito un suo ricco antenato che tornava con un carico di mercanzie e una carovana di muli dall'Adriatico, dal porto di Pescara. La carovana era stata sbaragliata, rapinata, il bisnonno bastonato fino ad avere tutte le ossa rotte ed era morto pochi mesi dopo, fra dolori inenarrabili, circondato comunque dalle cure pietose della moglie e dei figli. La famiglia era stata così ridotta sul lastrico, ed aveva dovuto ricominciare tutto da capo. Se la storia fosse del tutto vero, se fosse un'esagerazione, o addirittura tutta un'invenzione, non l'avrebbe mai saputo: ma allora per lui era vera, era la realtà, e una realtà senza tempo, che poteva essere accaduta cent'anni prima o ieri. Rina parlava quasi senza interruzione e lui, ogni tanto, automaticamente, doveva rispondere. Ma l'anima era fuori dei finestrini della macchina, coi sassi, in mezzo alle macchie di verde, fra gli alberi, fra i radi cavalli che pascolavano. Superato Rosello, con le sue case fra le alte rocce - quasi tutti questi paesi sono costruiti in mezzo a speroni di roccia, pésco nel dialetto locale - ecco che lo sguardo si distende su Roio, addormentato sul costolone della montagna in tutta la sua lunghezza, con le maioliche del campanile luccicanti al sole e l'obbrobrio dell'albergo ormai in rovina, una specie di grattacielo una volta azzurro che supera in altezza persino la torre campanaria. Ecco, sulla sinistra, il cimitero, un piccolo agglomerato di costruzioni bianche, linde e ordinate, dove più di una volta qualche camioncino di venditore ambulante si era incamminato, lasciando la strada principale per la stradina sterrata sulla sinistra, diritta, credendo che quello fosse il paese. Dopo le ultime curve tutte a salire, finalmente il dirizzone del piccolo corso, e la piazza, dove si ferma la macchina. I soliti vecchi sulle panchine bianche di pietra si voltarono a guardare. Nessuno di famiglia, anche se sapevano della sua venuta, anche se abitavano proprio lì, sulla destra, nel primo palazzetto sulla piazza. Eppure era nato lì, in quel paese, quelli erano suo fratello e le sue sorelle, lì aveva ruzzolato e scivolato tante volte sul ghiaccio, aveva fatto a pallate di neve, aveva combinato marachelle, era sceso col padre, sulla mula, fin giù alle vigne, la mattina presto, quando ancora il sole non sfiancava. Ricordava una volta che il padre gli aveva comandato di tornare a casa da solo e lui si era perduto fra i viottoli bianchi che salivano in alto fino al paese. D'altronde lui non c'era cresciuto, lì, a tre anni era stato mandato in Toscana, dai ricchi zii, in Maremma, e lì aveva trascorso il periodo più felice dell'infanzia. Rivedeva ancora sé stesso bambino, di circa sei anni o poco più, aggrappato disperatamente alla gonna della zia, piangente, esserne strappato per tornare in mezzo al freddo e al buio di quei monti, in mezzo a bambini che parlavano un altro dialetto da quello che ormai era il suo. Dovette dire addio per sempre alle spiagge di Cecina, ai cavalli a branco nella pineta, al mare che brillava lontano fra i rami degli alberi. Eppure s'era abituato presto al suo paese: s'era ritrovato fra i sassi dell'Abruzzo, durante le mietiture d'estate, quando i bambini restavano i padroni del paese e giocavano per le strade e le piazze semideserte; durante le tristi giornate invernali, imbiancate solo di neve, che s'andava con le assi delle botti per sci a buttarsi dai pendii, con le gambe nude che uscivano dai pantaloncini corti. Ora i fratelli lo consideravano un estraneo. Aveva tradito. Non aveva più il diritto di tornare, quella non era più casa sua. Aveva studiato in città, ma non aveva messo a frutto i sacrifici del padre per sostenere la famiglia, aiutarla. Se n'era invece fatta un'altra, di famiglia, in città, si era preso una donna della città che guardava con disprezzo al paese, aveva fatto una figlia di città. Era un perfuga. Cosa voleva ora, perché veniva a spiare la loro vita difficile e stentata di montanari, a sbattergli in faccia la sua diversità, il suo incivilimento esteriore, e quella moglie così lontana, così diversa, così sprezzante? Nessuno gli venne incontro, alla macchina. E quando lui bussò ed entrò in casa, solo la sorella gli fece un sorriso inebetito dalla malattia. Lesse l'indifferenza, l'astio quasi nel saluto degli altri. Offrì un pacchetto di dolci. "Non ci servono, grazie. Da te non ci serve niente". Sentì stringerglisi il cuore, raggelarsi. Sentì per la prima volta, dopo settanta anni, che una parte di sé era morta. Si sentì diviso, dimezzato. Una parte percossa, uccisa, morta, sepolta. L'altra parte sopravviveva, ma era sofferente. Era la parte estranea a quei monti, al bosco alto sul colle in faccia al paese, alle scale ripide verso la chiesa, alla porta sgangherata di quella che era stata la sua scuola elementare, ai sassi della strada fatti tante volte di corsa sbucciandosi le gambe. Non diceva niente, a quella parte sopravvissuta, l'aria profumata di prato e di bosco che spirava in quello splendido pomeriggio d'estate, né l'odore della legna da poco tagliata e accatastata per l'inverno. Aveva cominciato a morire, e quella parte di sé che se n'era andata era rimasta sepolta lassù, fra i monti del paese natìo.