Articoli cuochi

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Premiata SalumeriaItaliana

Un articolo sui cuochi di roio apparso sul n° 3-2018 della rivista "Premiata Salumeria Italiana"

Roio del Sangro, patria dei cuochi
Un mezzo busto di bronzo con inconfondibile toque blanche in testa, casacca doppiopetto e un’espressione bonaria e gioviale accoglie i visitatori alle porte di Roio del Sangro, in provincia di Chieti. Il Monumento al Cuoco ci segnala che questo piccolo borgo di neanche un centinaio di abitanti, in Abruzzo al confine con il Molise, ha una storia e tradizione singolari. Roio è infatti il “Paese dei Cuochi di Famiglia”, quei cuochi cioè emigrati in tutto il mondo e impiegati nelle case di ricchi borghesi e aristocratici e nelle cucine delle ambasciate. Sembra che questa vocazione sia nata a fine ‘600 quando i primi cuochi di Roio cominciarono a lavorare nelle cucine delle corti del Regno di Napoli. È certo, invece, che nell’Ottocento gli emigranti del paesino abruzzese andavano a cucinare nelle ricche case di nobili napoletani, romani, inglesi, russi e tedeschi. Erano cuochi di famiglia, una “specializzazione” che richiedeva un lungo periodo di formazione, anche una decina di anni. Il più delle volte accadeva che giovani di 13 o 14 anni d’età cominciassero a lavorare chiamati da un cuoco esperto, roianese anche lui, spesso un parente, e apprendessero tra pentole e fornelli il mestiere che li avrebbe introdotti in prestigiose dimore. Anche i vicini paesi di Villa Santa Maria, Giuliopoli, Rosello, Borrello hanno dato i natali a generazioni di cuochi “casalinghi”, ma con una particolarità: i cuochi di Roio del Sangro lavoravano solo nelle case dei nobili e nelle sedi diplomatiche; quelli di altri paesi sulle navi da crociera e nei grandi alberghi. Per decenni i cuochi del territorio hanno preparato manicaretti in tutto il mondo, eclettici esperti di cucina internazionale non meno che di quella italiana.
Nel ‘900 avrebbero servito oltre 400 famiglie nobili e case diplomatiche, come ha documentato Nicola Cese, oggi pensionato, in un database (www.roiodelsangro.com) pubblicato con i nomi e i soprannomi dei cuochi, le casate che sono state servite e i menu proposti in occasioni di cene importanti ed eventi internazionali.
«È successo però che con i tempi moderni e la decadenza delle famiglie nobili questa catena si è lentamente spezzata, per finire una decina di anni fa» sottolinea l’architetto Giuseppe Manzi, che sta approfondendo una ricerca su questa curiosa storia. «Attraverso i racconti e le testimonianze degli ultimi cuochi, ormai in pensione, si potrebbero ricostruire le abitudini e i gusti dei ceti alti del secolo scorso». A Roio del Sangro gli anziani che si ritrovano in piazza hanno tutti una loro esperienza da raccontare. Come Filippo Coletta, novantenne, che all’età di 13 anni fu mandato da assistente nelle cucine del principe Boncompagni. «Ma ero così basso che non potevo arrivare alle pentole — ci ha detto tempo fa il signor Coletta — però l’anno dopo mi richiamarono». Negli anni successivi lavorò per Edda Mussolini e altre famiglie. L’ultimo piatto cucinato nel 1985.
Esordio e carriera di tutto rispetto anche per Antonio Di Lucia che cominciò la sua attività con il principe Ruspoli a Roma, poi dai Torlonia fino a emigrare alle Bahamas, finendo a lavorare in diverse ambasciate. «Sono uno dei più giovani — scherza l’ottantenne — avendo finito nel 2005».
Giorgio Coletta aveva 11 anni quando andò a Roma per lavorare da assistente nelle cucine dei Cavalieri di Malta, poi continuò come cuoco all’Ambasciata olandese e al servizio del principe Furnari a Courmayeur.
Non ultimo Domenico Cese, 79 anni, di cui sette passati nelle cucine dello stilista Valentino, venti all’Ambasciata inglese, tre sullo yacht privato del conte Oscar Pasquini e poi in Libano. «Ben 44 anni di mestiere. Ma oggi sono tornato a Roio per reinventarmi allevatore e mugnaio».

Massimiliano Rella

RivistaAbruzzese

Un articolo sui cuochi di Roio apparso sul n° 1 Gennaio-Marzo 2015 della Rivista Abruzzese scritto da Nicolino Cese.

Un articolo su Giovanni Spaventa, decano dei cuochi abruzzesi.

Articolo apparso sul n. 304 marzo/aprile 2012 de IL CUOCO. Il soggetto è Carlo Alberto Sammarone di Giuliopoli capo cuoco nella cucina ufficiali dell'Amerigo Vespucci, dal 1946 sino al giorno che andò in pensione. Il 17 febbraio 2012 ha compiuto 100 anni e vive a Giuliopoli.

Un articolo apparso sulla rivista " Virtù Quotidiane" dove vengono citati due cuochi di Roio.


 

Federazione cuochi

Un articolo datato 1960 anno delle olimpiadi di Roma, Roio contava ancora 600 residenti.

Articolo apparso su "Il Centro dell' 8 giugno 2014" parla dei cuochi del nostro paese.

Una Storia Incredibile che vale la pena raccontare.

Un primato che il nostro paese ha e che dovrà essere riconosciuto da tutti “ IL PAESE DEI CUOCHI “


 

Una iniziativa del nostro comune per ridare lustro a tutti i nostri compaesani che hanno intrapreso negli anni il mestiere del cuoco.

Lo scopo è quello di scrivere un libro che certifichi come la nostra cucina abbia inciso in modo significativo a diffondere nel mondo il gusto del mangiare Italiano.

Nei prospetti allegati che potrete stampare vengono illustrate le iniziative e proposto un questionario da compilare e ritornare :

Articolo apparso sulla prima pagina de " Il Molise "

Un articolo apparso sulla rivista "Cucina&Vini"

Un articolo sui cuochi di Roio apparso sulla rivista "Cucina & Vini
Un articolo sui cuochi di Roio apparso sulla rivista "Cucina & Vini

Articolo apparso su una rivista tedesca in occasione della inaugurazione del monumento al cuoco.

La nascita dei Cannelloni

TUTTE LE CAMPANE A FESTA PER LA NASCITA DEI CANNELLONI

NE VIENE ATTRIBUITA L'INVENZIONE AL ROIESE

SALVATORE COLETTA 

Dal libro "Spaghetti all'acqua di mare" di Gaetano Afeltra)

Alle ore tredici di un giorno di agosto del 1924, quando il sole spaccava le pietre e tutto il paese sembrava assopito in un'immensa colata di luce abbagliante che il riflesso del mare trasformava in una nebbiolina evanescente, improvvisamente le campane della chiesa del convento, fondato da San Francesco nel 1222, cominciarono a suonare a distesa, cono nel giorno di Pasqua, al momento della Resurrezione. Amalfi si scosse di colpo. Quale bella notizia recava quel suono gioioso? Chi era per strada si voltò a guardare la torre del campanile del convento come se dagli archi, oltre al dondolare (lei battaglio contro la campana, dovesse venir fuori anche il motivo di quel richiamo festoso. I sagrestani del Duomo, di San Biagio e dello Spirito Santo credettero a un evento straordinario e, senza nemmeno chiedersi la ragione di quell'inatteso scampanio solenne, corsero anch'essi a suonare. Ormai era diventato un giorno di testa. Ma che festa? Dai balconi la gente se lo chiedeva, ma nessuno sapeva rispondere. Si vedevano preti trafelati e inconsapevoli correre alle loro chiese per conoscere la lieta novella. L'annuncio di un concilio? La nomina di un vescovo? Solo al vecchio convento sapevano. Intatti. La chiesa del convento è rimasta tale e quale com'era, come la volle il poverello d'Assisi, che ad Amalfi restò due anni col suo compagno fra' Bernardo di Chiaravalle. Edificò il convento per l'abitazione dei monaci e un chiostro bellissimo. Poi ci furono le varie espropriazioni e, in seguito al concordato di Terracina, dei 1818, tra i Borboni e la Chiesa, il convento cessò come casa religiosa e passò in proprietà alla parrocchia di Santa Maria Assunta della frazione Pastena di Amalfi. Ed è tuttora di sua esclusiva proprietà, nonostante le cause intentate dai frati conventuali.La parrocchia dette il convento in affitto alla famiglia Barbaro con l'obbligo della cura della chiesa annessa: messa alla domenica, funzioni religiose secondo le regole episcopali, il rosario all'ora dei vespri, la nomina di un cappellano, tutto come se ci fossero ancora i frati. I Barbaro, gente devota, hanno mantenuto sempre fede ai patti. Del convento, prima fecero una locanda, poi un albergo, l'Hòtel Luna. Ancora oggi, dopo più di tiri secolo e mezzo, locatore e affittuario non sono cambiati. L'albergo, che ha anche un'ala nuova modernissima, conserva nella parte vecchia l'antica struttura. Le celle, che danno tutte sul stare, hanno le stesse porte di legno di allora, con i piccoli battenti e il finestrino a grata per vedere chi bussa; la chiave della serratura è la medesima di un tempo: di ferro, lunga, nera e rozza. Le camere sono monacali nel senso più stretto della parola, allineate su due piani: tino a livello del chiostro, l'altro sotto. Alla sera e alla notte solo una luce mollo fioca e schermata consente di orientarsi in quella semioscurità quieta e mistica. Un silenzio fatto di pace e di solitudine sembra scendere dal cielo: quando è stellato e c'è la luna piena, le bifore del porticato appaiono maestose e insieme lontane mille anni dal rumore e dalla violenza delle città, suscitando un bisogno di bene e talvolta, in quella beatitudine, un senso di rimorso. Ma anche passioni d'amore così forti da sembrare irripetibili. Un vero incantesimo. I forestieri ne restano rapiti, muovendosi con
circospezione, come se appartenessero a un ordine religioso. Incontrandosi si salutano con inchini appena accennati, parlano bisbigliando, chiudono le porte con delicatezza da certosino. I servizi, i bagni, il guardaroba sono ricavati nella cella attigua così che, se prima, ai due lati del chiostro c'erano ventiquattro monaci in ventiquattro celle, oggi ci sono dodici celle sopra e dodici al piano inferiore. L'arredamento rispetta la tradizione: nelle celle tutto è rimasto povero ma pacatamente elegante: dov'era il giaciglio con ai due l'inginocchiatoio e la sedia, c'è un letto più ampio che va quasi da un muro all'altro, lindo e molto sobrio, se così può dirsi. Ai due piedi due poltroncine e, contro la parete, un tavolinetto cosiddetto "fratino". Da    un finestra piccola con le imposte dipinte in verde, si vede un mare immenso, da Capo d'Orso a (:apri, il golfo di Salerno e il golfo di Napoli, i Faraglioni e nelle giornate chiare e splendenti perfino la Sardegna, dicono i marinai. Certo i monaci sapevano vivere e San Francesco sapeva scegliere i luoghi dei conventi. Ma torniamo alle campane. Amalfi è tutta spalancata sul mare, cinta e chiusa alle spalle da una catena di monti che ai tempi del suo splendore repubblicano ne taceva una fortezza imprendibile da parte dei corsari nelle loro varie incursioni. A una estremità del paese, quella di destra, con la torre saracena, c'è l'Hòtel Luna; mentre all'estremità sinistra, posto in alto c'è il famoso Cappuccini, l'albergo ultrasecolare di fama mondiale. Convento anch'esso, con chiostro e celle, tiri lungo viale con colonnato a reggere il pergolato che fa da tetto con le foglie delle viti e, nella stagione giusta, i grappoli d'uva. Ai bordi, rampicanti di houganvillee e gerani. Qui i monaci cappuccini, passeggiando, recitavano preghiere, leggevano il breviario e ringraziavano il Signore per quella vita serafica e piacevole. Anche il Cappuccini, dal 1826, fu dato alla famiglia Vozzi, che ancora oggi ne ha mantenuto lo stile. La sala da pranzo è il vecchio refettorio, e all'ora dei pasti suona la vecchia campanella dei frati. E' sospeso sul mare, in una grande cornice verde, in mezzo a tiri bosco rigoglioso, fra aranceti, rose e aiuole di begonie. Fino a pochi anni fa, prima che vi fossero istallati gli ascensori, vi si accedeva da una rampa pedonale dove le persone anziane salivano in portantina. E qui comincia lo `spettacolo L'ultimo dei Vozzi - don Alfredo - un uomo alto, magro, biondo ancora in tarda età, dal portamento signorile, vestito con una eleganza sobria e un po' négligée, pieno di charme, poliglotta, somigliante per pietà a Lawrcncc d'Arabia e per metà al Kaiser, era amico di re, di poeti, di scienziati e di artisti. Oggi si direbbe un gran manager: niente affatto, solo tino stravagante padrone di casa, pieno di fascino. Tale era la simpatia che ispirava che, per un Capodanno, si dettero convegno quattro re che aspettarono la mezzanotte del 31 dicembre insieme a Salvatore Di Giacomo e Guglielmo Marconi, questi ultimi ospiti abituali di don Alfredo. Una reggia e un'accademia di arte e di scienza? Tutt'altro. Solo una casa di amici. Don Alfredo aveva qualche disturbo di vecchiaia, ma essendo sempre stato una quercia, insofferente del più piccolo fastidio, era diventato nevrastenico. Si considerava inalato, ma non lo era. Una civetteria da vecchio signore. Passava molte ore a letto e quando si alzava sedeva sotto il pergolato a ricevere gli aprici. Fumava rabbiosamente sigari toscani, ma più che fumare, dopo averli accesi, li stritolava coi denti e li buttava via. Per oltre trent'anni non era mai sceso in paese. Per gli amalfitani era un mito. Aveva molte stranezze: ogni sera mandava al capitano del piroscafo che faceva servizio per Napoli, un dolce o un altro piatto squisito perché, al mattino alle sette, alla partenza del vapore, non suonasse la sirena che avrebbe svegliato i clienti. Una piccola innocente corruzione e una riguardosa attenzione. Quando invitava qualcuno a colazione a un certo punto, stufo di una pietanza, diceva: "basta". Ed esigeva che anche il commensale smettesse. Per sé non voleva il cambio dei piatti, ma mangiava le varie pietanze in un piatto solo, ammonendo ogni volta il cameriere: "Alla borbonica". Cosa c'entravano i Barboni non si sa. Come se quella dinastia avesse avuto la stessa strana abitudine. Non usava il coltello, ma uri temperino che teneva in tasca. Fisime e nevrastenie messe insieme. Però quando vedeva che, dalle rampe, salivano a piedi o in portantina "nuovi arrivi", si rinvigoriva e, pur facendosi sorreggere (per modo di dire) dai due fedeli facchini - Andrea Torre e Giuseppe Dipino - si metteva in cima alle scale a ricevere gli ospiti. Qui cominciava la grande scena. Bello, dritto e solenne, scortato dai due inservienti in tenuta turchina, don Alfredo, con uno scialletto viola sulle spalle, accoglieva i forestieri. Dopo aver accennato un inchino, diceva: "Un vecchio infermo si alza dal proprio letto per dirvi bene arrivati ai Cappuccini". A quelle magiche parole, l'amore scoppiava improvviso e i clienti, anziché un giorno, rimanevano mesi e tornavano negli anni seguenti. Altro che "pubbliche relazioni": questo era cuore e intelligenza. E la storia della campana? Finalmente ci siamo arrivati. H rapporti tra i due alberghi - l'Hòtel Luna e l'Hòtel Cappuccini - erano di reciproco rispetto e di cavalleresca lealtà. Tutte e due le "dinastie" alberghiere - i Barbaro del Luna e i Vozzi dei Cappuccini - avevano mantenuto una regola a cui non vennero mai meno. Quando la cucina di uno dei due alberghi inventava un piatto nuovo, il primo assaggio e il giudizio spettavano all'altro. Così avvenne quel giorno dell'agosto 1924. Lo chef, Salvatore Coletta, dopo vari esperimenti mantenuti segreti, approntò un piatto che presentò personalmente a don Alfredo. Vi aveva lavorato per mesi e gli aveva dato anche un nome: cannelloni. Allineati nel piatto di portata, avevano un profumo sublime e colori vivaci. Don Alfredo ne assaggiò tino, sgranò gli occhi e disse solo: "Bravo, Salvatore, per me è una cosa divina. Occorre però il giudizio dell'Hòtel luna. Mandateli subito a dori Andrea Barbaro". li messo partì di volata. Don Andrea, comunemente chiamato "il padrone della Luna", era un celebre buongustaio: pesava centotrenta chili. Assaggiò, dette un urlo, spazzò via tutto il piatto voracemente e alzatosi, col tovagliolo ancora appuntato al collo, detto ordine di suonare a gloria le campane della chiesa del convento. Per lui l'invenzione dei cannelloni era un evento straordinario da festeggiare, una grande conquista culinaria degna di essere comunicata al popolo. Il sagrestano lo guardò timido. Enorme, con voce perentoria, don Andrea non volle saper storie: "Corri.' disse "fai presto, non fare il fesso. Lo sai che oggi è nato un grande piatto?". Il brav'uomo obbedì. Don Andrea era esultante come la notte di Natale per la nascita del Bambino Gesù. Lo scaturiamo improvviso giunse ai Cappuccini. Don Alfredo notò sulla terrazza dell'Hotel Luna uno strano sventolio. Prese il binocolo e vide: era tutto il personale del Luna che taceva festa sventolando i tovaglioli. L'onore delle armi al concorrente vincitore. Intanto tutte le campane di Amalfi continuavano a suonare. Certo, dopo l'invenzione delle bussola quella dei cannelloni è l'altro vanto della città. A Londra, a New York, nel mondo li mangiano ma non ne conoscono la storia, forse nemmeno in Italia. Salvatore Coletta resta un signore sconosciuto che non c'è più. Dio l'abbia in gloria.
Gaetano Afeltra

* Coletta Salvatore sposato con Rosa (sorella di Di Rienzo Giuseppe), figli: Armando,Vincenzo, Salvatore, Maria ed Angelina (Lina).
   Casa a Roio di fronte a quella di Pidocchio (caduta)
   Di Rienzo Giuseppe (sposato con sorella di Coletta Salvatore), figli: Amalia (patanara),Margherita,Vincenzo, Carlo (medico), Annita

Da " L’INDIPENDENTE " SABATO 30 OTTOBRE, 1993 

Dal “Corriere della Sera” del 23 gennaio, 1990

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